Tre incontri a Casatenovo

Ho ricevuto e accettato volentieri questo invito a prendere parte ai percorsi proposti da UTE Casatenovo, il cui titolo e tema per quest’anno sarà “Itinerari”; itinerari nella letteratura, nella scienza, nell’arte, nella fede e anche nella geografia e nella geopolitica.

Nelle tre date, che vedete nel volantino qui sotto, tenterò di portare l’attenzione verso tre regioni lontane dai riflettori e che invece è utile tenere presenti perché, per motivi diversi, possono dirci qualcosa sul tempo che stiamo attraversando. Per far solo un esempio, sono luoghi che, pur non direttamente coinvolti, ci aiutano a guardare da altre angolazioni quanto accade in Ucraina.

Una doverosa precisazione: ci sono tante persone più titolate di me che svolgono preziosi lavori di studio e ricerca su questi contesti, ne citeremo diverse; in queste tre serate l’auspicio sarà semplicemente quello di costruire insieme una “mappa” di base, fornire qualche spunto e qualche strumento per capire un pochino di più queste regioni e – se le cose vanno come devono – magari accendere in qualcuno la voglia di proseguire l’esplorazione.


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Impressioni di settembre

Grecia 2018, a Agistri

Il ritorno in classe in condizioni quasi prepandemiche certifica che l’esperienza covid-19 non ha lasciato molto. Ci sono aspetti del mondo scolastico che, alla luce di questi anni, sono per me diventati inaccettabili. Mi limito a due brevissime considerazioni, sapendo che potrebbero essere molte di più.

– Non possono più esistere classi che superino i 20 studenti, sia per questioni di benessere ambientale sia per poter tenere standard didattici accettabili e dignitosi. In periodo di poche idee (confuse) e scarse risorse per la scuola direi che l’unica riforma da attuare subito è questa: mettere un tetto al numero di studenti per classe. Siamo tornati invece a dirigerci nella direzione contraria con un fiorire di classi da trenta persone. Se non siete entrati in classe da questo lato della cattedra non avete nemmeno la pallida idea di che differenza faccia.

– Non si può più pensare che la scuola sia fatta da cinque o sei ore seduti con 10 o 20 minuti di intervallo se va bene. E’ un’idea di scuola fuori dal tempo, che non coglie i segnali, non considera che l’utenza di oggi non è quella del 1995. Le fragilità e i problemi di benessere psicofisico erano in aumento prima della pandemia e sono esplosi insieme ai periodi di restrizioni, ogni studio in merito segnala lo stesso trend. Senza entrare in una analisi profonda, di cui qui non c’è spazio, prendiamo il discorso da uno dei punti possibili: abbiamo a che fare con giovani corpi che passano molto del loro tempo fermi davanti a uno schermo. La scuola deve essere anche pratica di alternative a questo vivere vegetale e digitalizzato.

Purtroppo la forza di inerzia che avvolge questo mastodonte burocratico e irrigidito dal tempo rende difficile, senza toccare i grandi nodi, anche solo ridiscutere la piccola organizzazione interna: spazi e tempi per la socializzazione e cose così.

Impressioni di settembre.

Scale, confini e risultati elettorali

Anzitutto, dai, non c’è da fare i sorpresi. La coalizione di destra ormai da trent’anni prende il 40%, rappresenta una parte consistente degli interessi del paese ed è egemone culturalmente: definisce i temi da trattare e come trattarli. Gli altri, sbagliando, inseguono.

Ulteriormente queste elezioni non sorprendono confermando l’effetto “pendolo” che contraddistingue da anni i risultati elettorali dell’Europa occidentale con poche eccezioni: alle elezioni sale al potere chi nel mandato precedente è stato all’opposizione. E questo penso spieghi almeno in parte la differenza tra il risultato di Meloni, senza alcuna responsabilità di governo a urlare cose dalla strada, e quello di Salvini, invischiato nel governo “dei migliori”.

Questo pendolo viene attivato dal costante scontento degli elettori davanti al magro operato della politica, segue il tentativo di provare tutti gli schieramenti e tutte le soluzioni, sperando che almeno uno sappia mantenere le promesse fatte.

Le promesse però non possono nella maggior parte dei casi più realizzarsi. Qui serve un salto di scala, la geografia ci aiuta anche stavolta: mentre la globalizzazione ha portato la maggior parte delle cose che ci succedono a scala trasnazionale, la politica, che dovrebbe gestirle, è rimasta inchiodata alla dimensione statale. Abbiamo per le mani uno strumento piccolo, poco efficace, per governare problemi molto grandi che tendono a ignorare i confini (e quindi il potere) dei singoli stati: clima, delocalizzazioni, migrazioni, terrorismo, ec. Agire solo a livello statale per molti di questi temi equivale a tentare di svuotare un lago con paletta e secchiello.

Quello che la maggior parte di noi percepisce o elabora più o meno fantasiosamente in questo procedere delle cose è una sempre minor utilità della politica (pensiamo all’acclamazione dei tecnici e al contemporaneo aumento dell’astensionismo).
Intanto, privato del suo slancio immaginativo e trasformativo, incapace di incidere sul reale, quello della politica diventa sempre più un circolo autoreferenziale, teso al mantenimento di posizioni di potere e loro usufrutto (per fare un esempio di questi giorni, nella campagna elettorale i candidati passano il tempo a darsi addosso e non a disquisire dei problemi del paese).

Infine la questione dei confini.
La globalizzazione degli anni novanta e duemila prometteva di dissolverli e dava l’idea che fossero un ferro vecchio buono soltanto per i boomers.
Forse abbiamo dato troppo credito a questa lettura banale dimenticando che i confini definiscono le identità e rispondono a bisogni profondi dell’essere umano. Passiamo il tempo, anche nel commento elettorale, a tracciare la linea tra “noi” e “loro”. Ogni confine che si toglie – sia esso una dogana, un diritto, la messa in discussione dei generi sessuali – lascia degli orfani che si sentiranno più in pericolo, più a disagio, che avranno bisogno di protezione e cercheranno questa protezione dietro il primo riparo possibile. I politicanti venditori di muri invalicabili e ritorni all’età dell’oro e della purezza sono lì ad aspettarli.

Forse noi, che oggi abbiamo tanta voglia di pubblicare post e commenti con scritto “adesso emigro” e prendercela in modo sprezzante (ignoranti, beceri, vecchi, gente che non ha studiato la storia, ec) con chi esprime un parere diverso dal nostro, dovremmo tornare a ragionare sul concetto di confine (e anche un pochettino su quello di democrazia). Senza svenderlo e ricordando che serve, a noi come a tutti.
Ridefinire il senso del confine, scegliere quali conservare e come, tenendo presente che non siamo tutti uguali e che non abbiamo sempre la ragione in tasca.

Al via oggi la quarta edizione del Festival delle Geografie

Inizia oggi “E se domani… – Geografie per abitare il futuro”, quarta edizione del più bel festival della geografia della Lombardia (anche perché è l’unico).

Pandemia, guerra per le risorse, cavallette, sesta estinzione di massa, politica allo sbando, speculazioni finanziarie, davanti a una situazione globale non proprio confortante, quest’anno abbiamo deciso di gettare il cuore oltre l’ostacolo e provare a scrutare l’orizzonte, a capire con quali traiettorie potremo avvicinare il futuro. Come ogni anno proveremo a farlo attraverso diversi punti di vista.

La scelta del verbo abitare che campeggia nel titolo non è stata casuale: parla del nostro rapporto con lo spazio e del nostro essere, prima di tutto, cittadini. Il contesto del Festival, il luogo in cui sorge, la città diffusa brianzola, con il suo essere spazio ibrido, territorio misto tra la metropoli e le Alpi, ha avuto un suo peso e ho tentato di spiegare qui perché.

Qui sotto potete visionare il volantino con il programma completo, altrimenti disponibile insieme a tutte le altre informazioni sul nostro sito. Sempre dal sito, se siete lontani, potete seguire tutto il Festival in streaming (o dalla settimana prossima rivedere i singoli eventi dal canale Youtube del Festival).

Vi aspettiamo!

Clicca sull’immagine per leggere il volantino e il programma in .pdf

Un mondo curioso

Nella foto scattata a Şəki in un caldo mattino del luglio 2018 si vede il faccione di Heydar Aliyev, presidente dell’Azerbaigian fino al 2003 e capostipite della famiglia di autocrati che ancora oggi domina il paese, tanto che gli omaggi (come quello in foto) al fu presidente campeggiano in ogni dove.

L’Azerbaigian in questi giorni sta bombardando l’Armenia. Il governo di Baku, nostro partner nel Caucaso meridionale, ben voluto in Occidente, salito agli onori delle cronache per aver finanziato restauri in Vaticano, sta conducendo operazioni militari non solo in Nagorno Karabakh, dove il conflitto si accende e si spegne da anni, ma dentro il territorio armeno.

Lo fa sostenuto da un altro noto collaboratore dell’UE e della NATO, Recep Tayyip Erdoğan, il presidente turco che da tempo manda i soldi e arma meglio i cugini azeri. Lo stesso che, nella vicenda ucraina, un giorno vende i droni a Kiev e il giorno dopo si propone come mediatore per conto di Mosca.

Si sa, le violazioni del diritto internazionale e le invasioni non sono tutte uguali e l’autocratico governo della famiglia Aliyev non è l’autocratico governo di Putin. Anzi, ora l’Azerbaigian diventerà uno dei nostri principali procacciatori di gas, aumentando le sue forniture del 30%, visto che non utilizzeremo più la materia prima russa.

Intanto Putin e Erdoğan, a cui riserviamo trattamenti molto diversi, oggi si sono ritrovati a far due chiacchiere in compagnia dei presidenti di Cina e India a Samarcanda.

É un mondo curioso, il nostro.