Un cuore in Inverno

di Roberto Escobar

Riporto questa bella recensione di Roberto Escobar tratta da “Il Sole 24 Ore” perchè oltre ad essere perfettamente attinente e rispettosa dei significati e del valore del film, propone la visione di un lungometraggio di grande qualità, capace di regalare 90 minuti d’intensità emotiva e partecipazione alla trama. Una trama sobria, sviluppata in modo lineare, elegante, uno sguardo profondo sull’uomo moderno e i suoi sentimenti – sarebbe più appropriato dire: sull’incapacità dei sentimenti. Un film che è l’ultima grande perla del regista francese Claude Sautet prima del definitivo ritiro dalle scene (Sautet era ormai più che settantenne). Proprio tale aspetto rende ancor più particolari i meriti di questo maestro della narrazione per immagini e ci dimostra, una volta di più, come il romanzo e il film “psicologici” non siano morti ma, anzi, i soli capaci di raggiungere e abbracciare l’interezza della dimensione umana.

Un cuore in inverno. La locandina

«Sono preoccupato per il loro futuro», dice Stéphane a Camille. I due seguono e quasi spiano il litigio di una coppia seduta di fianco a loro in un bar. Stéphane è sarcastico, cattivo. Questo è l’amore, intende: un farsi male, un aggredirsi, un darsi indifesi alla crudeltà dell’altro. Della dimensione del cuore, dunque, vede solo il lato oscuro, doloroso. E Camille? A lei basta una piccola frase per vincere il nichilismo di Stéphane: «Guarda, lui piange». Intanto, la macchina da presa di Claude Sautet cattura una carezza della donna, un gesto lieve sul viso del compagno in lacrime. Stéphane sembra credere che l’amore sia null’altro che una questione di letteratura. I libri ne sono colmi e lì, nei libri, l’amore può anche funzionare, dice. In essi si frequenta la stessa dimensione che appartiene alla musica, il sogno. Come sempre nel suo cinema, anche in Un cuore in inverno Sautet è attento ai particolari dei personaggi: la loro totalità nasce appunto dall’accumulo dei particolari. Stéphane è prima di tutto un paio di mani intente a restaurare un violino. Così inizia il film: lo strumento emerge dalla luce indistinta dello schermo. Poi, pian piano, si precisano i contorni, i tratti, le qualità di questo personaggio “senza qualità”. Il gelo del suo cuore è una scoperta scomoda, per noi che siamo subito indotti a identificarci in lui (nel film ci introduce la sua voce narrante che poi si perde e si fonde nei fatti e nelle immagini). Sautet ci costringe così a osservarlo ben dentro, sulle tracce delle ragioni di un gelo che ci stupisce. Come noi in sala, anche Camille tenta di guardare nel cuore di Stéphane. E questo che spiega il suo innamorarsi. Stéphane abita una zona franca, una terra di nessuno Da l’impressione di non essere mai nella situazione ma di starne un passo più in là, come un osservatore moderatamente interessato e prudente. La sua vita parallela alla vita non può mancare di affascinare chi abbia la sensibilità di Camille.
Stéphane ha il fascino del proprio narcisismo radicale. Sta tutto rinserrato in sé, dentro solide mura. In mezzo agli altri, è una presenza disorientante, come un vuoto o come una domanda che non voglia risposta (bravissimo Daniel Auteuil). Non domanda nulla, in realtà: ha già la sua risposta. E questo gli dà un’apparenza di autonomia, come se davvero stesse in un luogo privilegiato e come se davvero, di là, potesse essere straniero alla vita, spettatore neutrale della sua tragicommedia. La sensibilità di Camille, dunque, ne è attratta, benché Stéphane resti alla sua solita distanza, anzi proprio a causa di questa distanza. Tuttavia Camille non è abbastanza sensibile, e finisce per fraintenderlo. Lo fraintende, sempre, anche Maxime, che pure gli vive accanto da anni. Per lui, il fascino freddo di Stéphane è il segno della sua genialità d’artigiano: una qualità naturale, non invece un deliberato vuoto di qualità, un loro rifiuto. Non è questo, certo, l’errore di Camille. Lei sa guardare più nel profondo, e dunque intuisce in Stéphane qualcosa che si nasconde dietro le sue mura. Ma poi, quando lui le rinforza e le fa più alte, quelle mura, Camille si convince, a torto, che dietro non ci sia niente, se non un piatto, volgare, sconfinato egoismo. Ben più acuto è l’occhio di Sautet. La sua macchina da presa, infatti, scruta e svela i momenti in cui Stéphane si lascia andare e si apre. In quei momenti a noi pare indifeso: lo è quando spia non visto la vita di Lpuis, suo maestro; lo è quando Louis muore; lo è quando ascolta e guarda Camille che suona; lo è quando, alla fine del film, le rivela di amarla («Ho creduto a lungo che fosse l’unica persona che amassi», le dice di Louis: lei non comprende, o finge di non comprendere). Qui stanno le ragioni del gelo: Stéphane è indifeso, vulnerabile, dunque si “immura”. Come spesso accade, la sua fragilità interiore si muta in durezza esteriore. Sentendosi esiliato dalla vita, capovolge la situazione e così la elude. Ormai non ha più nulla da temere: facendosi straniero alla vita, non potrà esserne esiliato; convincendosi che l’amore sia un farsi male, non sentirà il male che gli viene dal non averlo; rifugiandosi nel sogno (nella musica), la realtà non lo ferirà. Quando Camille sta per varcare quelle mura mettendo in pericolo l’elusione difensiva di Stéphane, lui attua l’ultima difesa, che è crudele perché deve essere efficace. Troppo crudele per lei, che la fraintende. Non abbastanza efficace per lui, che scopre d’essersi chiuso in una prigione assurda e che, uscendone, si trova in una solitudine vera, senza più difese. Ora, a Stéphane si rivela anche il lato chiaro del cuore: lo ha visto nell’amore di Louis e della moglie, Io ha visto negli occhi di Camille. Ora però può solo soffrirne la mancanza.

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