Considerazioni a margine del caso-Daniel

La storia di Daniel ha sollevato come succede sempre in questi casi un sacco di polemiche e di ipocrisia. Tanto rumore per una vicenda che, infondo, ripropone una realtà quasi abituale, la brutalità della normalità, l’essenza diffusa nell’aria delle classi di lavoro più disagiate.

Basterebbe lasciare l’ufficio e recarsi, per una volta, in cantiere. Basterebbe farsi raccontare da qualcuno con due dita di sensibilità il mondo dei muratori e di altre figure esposte.

Quello che ci dovrebbe far specie, qui, oggi, sono le condizioni in cui sempre più persone sono costrette a lavorare, e non parlo solo di immigrati clandestini: la mutazione del modo di produrre, la fine dell’era sindacale e l’avvento delle forme di  contrattazione one-to-one, lo strapotere delle corporation, stanno producendo posti di lavoro che non rispettano la persona, la dignità dell’uomo. Dal cantiere al call-center, stiamo assistendo ad un imbarbarimento delle condizioni di lavoro: condizioni umane, esistenziali, intellettuali, fisiche, retributive, previdenziali.

Il problema del lavoro è un problema che parte dal rispetto dell’uomo e va oltre, oggi va decisamente oltre: è il problema di milioni di bocche che vogliono mangiare come la nostra e di milioni di braccia pronte a prendere il nostro posto. Sarà ora di valutare la questione: il lavoro diminuisce, ma aumentano i pretendenti al “trono”, vincono quelli che sanno accettare le condizioni più infime; e su questo banale assioma, alcuni, pochi, basano la propria fortuna, in barba alla dignità degli sfruttati (più o meno coscienti).

Il lavoro è in caduta libera e arriverà ad assomigliare ad una schiavitù per pochi e a una possibilità negata per molti, se non verrà ridiscussa la questione a livello transazionale: livello inesistente (mancata ratifica della costituzione europea, ad esempio).

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