Piove sopra la coda del nostro itinerario e stiamo rintanati a giocare a carte nella penombra di un anticamera color polvere. La lampadina a incandescenza segue i cali di tensione del grande motore diesel: il suono sordo del generatore dice che, fin qui, la linea elettrica non arriva.
Siamo fermi al bordo di una strada di passo, un motel affossato in un gorgo verde e umido, affacciato sul fiume; ancora due valichi da quattromila e domani saremo, di nuovo, a Bishkek.
Prendo appunti nello stanzino, mentre mi copro i polsi e sistemo il cappuccio. Fa freddo stasera, cielo grigio oltre i vetri. Ritorno con la mente alle impressioni più forti dei giorni. Le spezie, il fumo, gli odori, i colori, i volti e gli scambi, ripasso tutti gli ingredienti dell’impasto del viaggio.
Cammino di nuovo tra le macerie ai bordi della città vecchia di Kashgar. Un chilometro di sassi, legni e pietrisco, che un tempo erano case e che ora sono macerie, pezzi di muri abbattuti. Un uomo ondeggia tra le buche con un carretto, cani randagi attraversano il piano in branco. In fondo, dietro poche altre vie – la parte di quartiere vecchio che ancora resta in piedi – sorge verticale la nuova metropoli cinese; con luci, insegne, grattacieli e ruota panoramica. La metropoli degli han, i cinesi delle 18 provincie, sostenuti dal governo nella loro opera di progressiva colonizzazione di queste aree in cui la maggioranza, per ora, è uigur, cioè fatta di lontani discendenti dei turchi.
Quella spianata di sassi mi sembra un posto interessante per capire il senso dello spingersi fino a qui.
Lo è, per gli stessi motivi, il canalone di roccia e polvere che ospita la vecchia Karakorum Highway, il cui percorso – che non ho esitato a definire una gran cretinata da parte nostra – ho già descritto nei giorni passati; una strada piena di stranezze, pericoli, ambiguità, che collega Cina e Pakistan. Lavori in corso, piloni di cemento armato che attendono di diventare la grande strada di domani e ora dominano con aria livida la valle, come totem abbandonati; i cinesi con la dinamite in mano per far saltare il versante di roccia sporgente, il fiume impetuoso che raccoglie sul fondo torrenti d’argilla, gli abitanti che sbucano dalle loro case di paglia, pietra e fango e portano in volto, naso e bocca, un foulard per poter annaspare, senza perire, nella polvere.
I cinesi a Kashgar stanno spendendo due miliardi di yuan ogni anno per ridisegnare la città e trasformarla in una metropoli moderna, sempre più abitata, controllata e gestita dagli han e sempre meno vissuta dagli uigur (che hanno l’unica colpa di essere musulmani e di non voler smettere di mostrarlo). Resistono le vie più interne alla città vecchia, dove come nel rito secolare della via della Seta si ripropone il mondo del bazar, del gran commercio, dello scambio, della reciprocità, delle relazioni che si stringono, della comunità che vive delle sue regole.
La costruzione della nuova Karakorum Highway, quando andrà in porto, tra qualche anno, allo stesso modo, manderà in pensione il vecchio e pericolante tracciato che, nel bene e nel male, ha segnato secoli di storia e di imprese di viaggio, per mercanti, esploratori e pellegrini. Segnerà una accelerazione e una cesura nel percorso di questa terra e di chi la abita.
Negli anni mi sono dovuto arrendere all’evidenza che il mio istinto, durante le estati, mi porta sempre in posti così, dove la Storia visibilmente sta facendo il suo impersonale e impetuoso corso, sopra le volontà, gli intenti, le etiche, i desideri dei singoli. Lo fa in questi luoghi assumendo le sembianze del mercato e di quello che noi consideriamo modernità: l’aumento dei coefficienti tecnici e di consumo. La modernizzazione, come già aveva intuito Pasolini ai tempi delle lucciole, in questi luoghi oggi assume il volto di una avanzata che cancella le differenze, che minaccia d’estinzione, che abolisce la comunità in nome di una supposta libertà, che porta un avanzamento sulla strada fredda della tecnica e nient’altro, niente progresso.
Lo vedo bene dove finisco. Mi trovo qui, ora, in Piazza del Popolo, e osservo, alle sette in punto del mattino, in questo giorno di agosto, il sol dell’Avvenire, salutato dal comandante Mao, affogare nei fumi dell’umidità e dello smog. Tino lo chiama cielo di Cina: è la cappa opprimente che ci cammina sopra la testa in queste città; grande metafora dell’Impero di oggi che avvolge, sommerge, e spesso avvilisce.
Questo diario, come quasi tutti gli altri messi da parte, col racconto cerca di testimoniare e sottrarre qualche frammento al movimento dello schiacciasassi modernizzatore, prova a mettere in chi legge la voglia di venire a vedere, il piacere d’incontrare le altre forme del mondo. Solo quando conosco capisco il senso del difendere qualcosa e sottrarlo al tempo corrente.