Cose a(r)mene

Grazie all’Università per tutte le età – UTE Casatenovo nelle prossime settimane altre due opportunità per parlare di Armenia e Caucaso meridionale.

Per partecipare bisogna iscriversi all’UTE, tutte le informazioni le trovate sul sito dell’associazione.

Israele – Palestina, un vocabolario minimo

Premettendo che si tratta di una missione impossibile, qui cerco di mettere in fila alcuni eventi e parole chiave per provare a fare un quadro utile alla comprensione della cosiddetta “questione israelo-palestinese” e capire come siamo arrivati fino a qui.

Il contesto storico in cui nasce la vicenda israelo-palestinese è la fase finale del colonialismo, in cui le potenze europee si sono spartite per aree di influenza o zone a controllo diretto la maggior parte del globo: a fine ‘800 sono al lavoro per concludere la spartizione dell’Africa e ridimensionare l’Impero Ottomano. 

Israele nasce in questo contesto per dare rifugio e uno stato riconosciuto a una delle minoranze più perseguitate della storia: gli ebrei.  

Un’idea – quella di uno stato – partorita dalla più grande potenza coloniale del tempo, la Gran Bretagna, l’unica che potesse garantire terre a disposizione e la forza di imporre la formazione di un nuovo stato agli occhi della comunità internazionale. 

Nel 1890 gli ebrei in Palestina sono circa il 5% della popolazione, individui di lingua araba da secoli presenti sul posto. In quel momento – come tutti i popoli che hanno attorno – i palestinesi non hanno un loro stato poiché nell’area vigeva il controllo imperiale ottomano e il concetto di stato era un’idea europea ancora lontana, un’idea che da queste parti avrà successo più avanti, nei primi del ‘900 e nel corso delle lotte per la decolonizzazione.  

Spostiamoci in Russia, primo decennio del Novecento, il popolo è alla fame, sotterraneamente stanno maturando le condizioni che porteranno alla Rivoluzione d’ottobre. Lo Zar è in cerca di capri espiatori e cerca di incanalare il malcontento orientandolo contro gli ebrei. Così, con l’aumento degli episodi di persecuzione, gli ebrei russi iniziano a migrare verso la Palestina. 

Theodor Herzl, fondatore del movimento sionista, a Basilea (fonte: wikimedia)

Perché proprio lì? A fine ‘800 con la nascita del movimento sionista la Palestina – luogo nella terra promessa di biblica memoria – torna ad avere fascino come possibile patria degli ebrei di tutto il mondo. Il movimento sionista è un movimento politico che nasce nell’Europa centro orientale proprio a seguito delle crescenti discriminazioni che le comunità ebraiche subivano, si iscrive nella stagione in cui nascono e prendono forza i nazionalismi: il movimento ha come obiettivo quello dell’autodeterminazione del popolo ebraico, mediante la formazione di uno stato ebraico riconosciuto.  

La Palestina ottomana si fece strada come luogo in cui edificare questo nuovo stato, ma all’epoca questa idea circolava solo in alcune stanze, non esisteva un discorso pubblico ed esplicito al riguardo. I leader sionisti addirittura tenevano i contatti con il sindaco di Gerusalemme per rassicurarlo e tenerlo buono davanti ai dubbi circa i crescenti flussi di ebrei in arrivo dalla Russia. Nessun palestinese si sarebbe mai immaginato che un giorno qualcuno sarebbe venuto a comandare da fuori su quelle terre.  

Divisioni amministrative dell’impero Ottomano, 1875 (fonte: wikimedia)

Gli ebrei in arrivo dall’Europa e dalla Russia sono spesso colti e benestanti e si collocano all’interno delle classi sociali borghesi, altri sono di origini umili e vengono aiutati e sostenuti in vario modo dal movimento sionista. 

Passano una ventina di anni e due forti carestie colpiscono i contadini palestinesi. Per riuscire a sopravvivere al difficile periodo quest’ultimi iniziano a vendere la terra che, ovviamente, viene comprata in primis dagli ebrei che possono permetterselo e in secondo luogo da ebrei di umile origine che però vengono sostenuti dal Jewish National Fund (JNF), un fondo cassa concepito durante la prima conferenza sionista del 1897 e che esiste tuttora. Il fondo era stato creato esplicitamente per comprare terre in Palestina a beneficio dei nuovi coloni ebrei europei e russi in arrivo.  

Nello stesso momento le potenze occidentali stanno studiando strategie per sbarazzarsi una volta per tutte dell’Impero Ottomano, che ormai versa in condizioni difficili ai confini orientali d’Europa. Da nord nei Balcani, sul Mar Nero, nel Caucaso, gli Ottomani sono insidiati dall’avanzata degli austriaci e dei russi. A sud inglesi e francesi si stanno accordando su come mettere le mani in Medio Oriente, una zona di cui via via emerge la strategicità. Culmine di queste mosse sarà l’accordo segreto Sykes – Picot del 1916, in cui Francia e Gran Bretagna si accordano su come suddividere le proprie sfere di influenza nell’area. 

Negli stessi mesi gli inglesi giocano sporco su più tavoli: promettono (ingannevolmente) alla casa reale saudita un grande stato arabo nel levante in cambio della fedeltà nella guerra contro l’Impero Ottomano, e nel 1917, con la dichiarazione Balfour, rassicurano il movimento sionista circa la formazione di uno stato per gli ebrei in Palestina.  

Qui c’è una certa asimmetria che inizia ad emergere e che caratterizzerà la storia dell’area negli anni seguenti: mentre i sionisti sono uomini integrati nell’alta società internazionale – quindi con una serie di agganci che permettono loro di conoscere in anticipo e comprendere le mosse inglesi – non possiamo dire lo stesso per il mondo arabo e in particolare per i palestinesi, che vivono questo tempo all’oscuro di tutto. L’idea ancora diffusa all’epoca nel contesto arabo è che con l’imminente fine dell’Impero Ottomano quanto in mano turca ritornerà sotto il controllo arabo. 

Gli inglesi vedono nella formazione di uno stato per gli ebrei l’occasione per avere una sentinella europea in Medioriente, i sionisti che immigrano hanno presente i motivi che muovono gli inglesi e partecipano a questo matrimonio d’interesse, sono quindi perfettamente organici a una logica di stampo coloniale. 

Arrivano gli anni Venti, gli ottomani vengono battuti con l’aiuto arabo, a cui però non arrivano le promesse ricompense (niente Grande Arabia insomma), l’accordo segreto Sykes Picot emerge pubblicamente e si realizza spartendo la zona tra paesi controllati dagli inglesi e paesi a controllo francese, la Palestina finisce per qualche tempo sotto amministrazione congiunta e intanto al suo interno la popolazione ebrea cresce (gli ebrei in Plaestina erano il 5% nel 1890, il 15% nel 1922).  

Accordo Sykes – Picot, 1916 (fonte: Britannica)

Questa espansione ha una dimensione anche urbanistica che non può più passare inosservata: i palestinesi vedono persone provenienti dall’Europa costruire edifici europei all’interno di luoghi e contesti della loro quotidianità. Si iniziano a creare sospetti e tensioni. Gli inglesi amministrano la situazione cercando di dissimulare e rassicurare.  

Edifici della comunità ebraica sorgono non solo in quelle città dove ebrei erano già presenti, ma anche costruendo villaggi dal nulla nel bel mezzo della Palestina. Nel 1921 gli ebrei hanno già formato una milizia paramilitare, l’Hagana, che sarà il nucleo fondante del futuro esercito israeliano. La situazione si fa quindi sempre più tesa e nei palestinesi inizia a formarsi un forte sentimento di avversione. 

Nel 1939 gli ebrei sono diventati il 32% dell’intera popolazione dell’area. Il Mufti di Gerusalemme Amin Al Husseini – figura centrale per la comunità palestinese, ma che sicuramente non ne rappresenta l’interezza – abbandonato dalle potenze coloniali e mosso da ormai dall’avversione, si rivolge ad Hitler, in cerca di sostegno contro la progressiva colonizzazione.  

Il Gran Mufti in visita in Germania, 1943 (fonte: wikimedia)

 La collaborazione con i nazisti procede nella speranza di ottenerne qualcosa, intanto, facendo leva sulla disperazione e sul bisogno dei contadini palestinesi, va avanti la compravendita di terreni grazie ai soldi del JNF. Con l’olocausto la comunità ebraica internazionale si convince sempre di più della necessità di un proprio stato dove vivere sicuri.

Dopo un periodo di gestione condivisa la Palestina rimase sotto mandato unico britannico. Gli inglesi per provare a ordinare la situazione istituirono una commissione che avrebbe dovuto trovare una soluzione per la convivenza dei due popoli. Gli arabi palestinesi durante i lavori della commissione non vennero mai consultati.  

La Commissione Peel, così si chiamava, nel 1937, produsse un piano di spartizione del territorio palestinese per la costituzione di due stati, uno ebraico e l’altro arabo, raccomandando tra le altre cose uno scambio di popolazioni di modo da formare due entità etnicamente omogenee. Gli arabi, che erano la maggioranza nella regione, rifiutarono, anche con azioni violente, mentre tra gli ebrei le reazioni furono diversificate: dal completo rigetto da parte dei sionisti più integralisti all’accettazione come primo passo verso uno stato ebraico da parte dei più moderati. Le proteste fecero comunque rimanere la proposta lettera morta.  

Il piano prevedeva l’assegnazione di un quinto della regione agli ebrei, il più fertile e ricco, e il resto ai palestinesi (che avrebbero probabilmente rifiutato in ogni caso per questione di principio e per totale assenza di consultazione). Qui bisogna fermarsi e calarsi nel contesto. Dopotutto, si potrebbe pensare, Peel assegnava la gran parte del territorio agli arabi palestinesi, perché rifiutare? 

Proposta della Commissione Peel, 1937

Perché la colonizzazione come abbiamo già ricordato era nata e cresciuta con metodi che di volta in volta avevano utilizzato l’inganno o la forza di una grande potenza coloniale per legittimare una azione di progressiva occupazione. I palestinesi dopo aver visto gli ebrei mettere su infrastrutture, uffici amministrativi e milizie, iniziarono a chiedersi se per caso dietro quei flussi non ci fossero altri programmi e se non fosse il caso di iniziare a premunirsi. 

Il rifiuto è quindi in parte di principio, in parte di precauzione, e in parte dovuto alle preoccupazioni circa i trasferimenti di popolazione che la proposta Peel avrebbe comportato: 200.000 palestinesi avrebbero dovuto lasciare le loro case ed essere inseriti, non senza impatti, nelle zone deputate ad accogliere la comunità araba.  

Per non risultare integralmente nemico dei palestinesi, per non rafforzare l’impressione altrui di parzialità, dopo aver compreso che le rivolte arabe di quegli anni avevano le loro ragioni e non erano motivate unicamente dall’antisemitismo, nel 1939 il primo ministro inglese Chamberlain fa emettere  il cosiddetto “White paper”. Con questo documento i britannici rigettano il lavoro della commissione Peel e stabiliscono un limite di 75.000 ebrei (dai 100.000 precedentemente pattuiti) immigrati per altri 5 anni, dopo i quali sarebbero stati gli arabi a decidere quali e quanti immigrati accettare. I sionisti rifiutano immediatamente, e danno il via ad una serie di scioperi e azioni armate. I vertici politici e religiosi palestinesi davanti a questa scelta sono spaccati. Prevale la linea del Mufti Amin al Hussaini di rifiuto integrale.  

Con la fine della seconda guerra mondiale la Gran Bretagna rimette il suo mandato e la palla passa alle neonate Nazioni Unite. Il piano di partizione dell’ONU (risoluzione 181) adottato dall’Assemblea generale nel novembre 1947, assegna alla futura Israele il 57% del territorio della Palestina, e ai palestinesi il 43% (in gran parte inadatto all’agricoltura). In quel momento, gli ebrei erano il 33% in tutta la Palestina e possedevano il 6% delle terre. Nel piano proposto, inoltre, il 44% del totale dei palestinesi avrebbe risieduto nello stato di Israele. 

I sionisti accettano. I palestinesi rifiutano, abbandonando l’assemblea ONU e dichiarando che il piano è stato realizzato “sotto l’influenza di diverse pressioni” e in palese contrasto con il diritto all’autodeterminazione dei popoli sancito proprio dalla carta delle Nazioni Unite. 

La commissione ONU di converso sostiene che diversi paesi arabi starebbero tramando per alterare le disposizioni della risoluzione 181. È forse questo il momento – e in seguito quello in cui i paesi arabi attaccheranno Israele – in cui avviene una sorta di “passaggio”: i palestinesi inizieranno a scontare le azioni dei paesi arabi, a pagare sulla propria pelle non più solo le decisioni degli europei ma anche le mosse dei loro alleati. Questo avverrà perché per gran parte dei sionisti i palestinesi sono un’invenzione, semplicemente “arabi” senza ulteriori distinzioni. 

Il 14 maggio 1948 lo stato di Israele si dichiara unilateralmente indipendente; il giorno dopo Egitto, Siria, Libano, Iraq e Transgiordania lo attaccano: si svolge la prima guerra arabo-israeliana. I paesi arabi sottovalutano ampiamente il potenziale israeliano e ricevono una netta sconfitta. Questa pagina di storia per il mondo arabo verrà ricordata come nakba (“la catastrofe”). Le conseguenze saranno pesanti e tutte per i palestinesi: avendo vinto, i sionisti si sentiranno in diritto di colonizzare porzioni sempre maggiori di territorio. Per quanto dicevamo sopra, i territori conquistati erano territori sottratti non ai “palestinesi”, che “non esistono”, ma agli “arabi”. E il concetto era che “gli arabi” (i paesi) mi hanno attaccato, quindi “agli arabi” (i palestinesi) la faccio pagare.  

L’elaborazione da un articolo molto interessante sul sito Ispi

Con la vittoria, Israele conquista gran parte del territorio palestinese ad eccezione della Cisgiordania e della Striscia di Gaza. 

Lo stato è ancora fragile, le sue istituzioni e il suo sistema economico sono in costruzione e i vicini arabi devono trovare un modo per interrompere il costante flusso di ebrei in arrivo in una terra che per secoli era appartenuta alla popolazione agli antenati dei moderni palestinesi. Nel 1967 alcuni stati arabi pensano di poter attaccare e battere Israele. 

A guidare questi paesi c’è l’Egitto di Gamal Abdel Nasser, un carismatico leader socialista promotore del panarabismo una corrente di pensiero che chiedeva maggiore unità politica ed economica fra i paesi arabi del Medio Oriente. Fra le altre cose Nasser si inventò una specie di coalizione permanente con la Siria – la cosiddetta Repubblica Araba Unita – e favorì la nascita dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), che per decenni è stato il principale organo di rappresentanza del popolo palestinese. 

Siamo in epoca di Guerra Fredda, la divisione del mondo in sfere di influenza tra Stati Uniti e Unione Sovietica, i paesi arabi di recente decolonizzazione guardano con simpatia a Mosca, per un’alleanza contro quelli che poco tempo prima erano stati i colonizzatori. 

L’attacco progettato dagli arabi viene però preso in contropiede da Israele i cui servizi segreti in collaborazione con quelli statunitensi comunicano e anticipano le mosse avversarie. Israele rivela la sua potenza militare derivante dal continuo addestramento e dalle forniture di armamenti di origine americana. Per gli arabi è una nuova sconfitta. Israele occupa tutti i territori palestinesi. 

(fonte: wikimedia)

La Guerra dei Sei giorni ebbe conseguenze sulla pace e soprattutto sulle guerre future. Mise fine al progetto militare e politico del panarabismo, che almeno per quel periodo storico finì con la morte di Nasser nel 1970. «Dall’altra parte», ha scritto lo storico Benny Morris, «diede spinta a un’ideologia espansionistica legata ai movimenti della destra religiosa che prima del 1967 era praticamente inesistente»: in Cisgiordania si trovano infatti molti luoghi descritti nella Bibbia nei testi sacri dell’ebraismo, cosa che secondo diversi leader religiosi ebraici dà loro il diritto di occuparli. 

L’occupazione dell’intera Cisgiordania durò fino al 1994 – contro il parere dell’ONU – e causò disagi e sofferenze per milioni di palestinesi, che nel giro di pochi giorni diventarono delle specie di “cittadini di Serie B” dello stato israeliano (condizione che per alcuni di loro dura ancora oggi). L’occupazione legittimò la fondazione di colonie israeliane in tutta la Cisgiordania, proseguita per decenni. Oggi si stima che nelle colonie israeliane in terra palestinese viva circa mezzo milione di persone. La diffusione delle colonie è considerata il principale ostacolo per le prospettive di pace fra israeliani e palestinesi. 

In Egitto e in Siria erano nel frattempo saliti al potere rispettivamente Anwar al Sadat e Hafez al Assad (padre dell’attuale presidente siriano Bashar al Assad): entrambi erano leader nazionalisti e laici, che fondavano cioè il proprio mandato su una comune appartenenza etnica araba, più che sulla religione islamica. Il nazionalismo panarabo, che proponeva un’unione dei vari paesi a maggioranza araba, aveva portato a diversi esperimenti, tutti falliti, come la Repubblica Araba Unita e, proprio in quegli anni, alla Federazione delle Repubbliche Arabe. 

Entrambi i paesi affrontavano una situazione economica abbastanza difficile, erano osteggiati dalle organizzazioni islamiste (in particolare dai Fratelli musulmani in Egitto) ed erano spinti dai ceti più istruiti e nazionalisti a riprendersi i territori sottratti da Israele con la guerra del 1967. Sadat e Assad decisero quindi di attaccare a sorpresa Israele. 

L’attacco fu programmato per il 6 ottobre, che quell’anno corrispondeva allo Yom Kippur, una importante festività ebraica. 

Israele venne colto di sorpresa, i suoi vertici militari proposero di contrattaccare con l’aviazione in modo massiccio, ma i leader politici chiesero di aspettare, per far chiaramente apparire Israele come l’aggredito e non come un aggressore. In questo modo gli Stati Uniti avrebbero avuto meno problemi ad intervenire davanti all’opinione pubblica internazionale. Il sostegno degli Stati Uniti, che organizzarono un ponte aereo per rifornire di mezzi militari Israele, si verificò e si rivelò essenziale per recuperare le perdite iniziali e vincere la guerra. 

Al termine del conflitto gli stati arabi si resero conto che la possibilità di una sconfitta militare diretta di Israele era diventata ormai poco realistica, cosa che diede nuovo impulso alle trattative di pace. In effetti quella dello Yom Kippur è l’ultima guerra fra coalizioni di stati arabi e Israele. I conflitti successivi hanno riguardato essenzialmente i territori palestinesi, occupati da Israele dal 1948. 

La guerra scosse molto la popolazione israeliana, per la prima volta dal 1948 minacciata direttamente dagli eserciti di paesi ostili. Il governo fu molto criticato per la sua gestione del conflitto e questo segnò la fine di un lungo periodo in cui Israele era stato governato da partiti di sinistra. Nel 1977 alle elezioni vincerà un partito di destra: i partiti di destra in Israele sono storicamente meno inclini o contrari a una soluzione di compromesso con i palestinesi. 

La Guerra dello Yom Kippur ebbe anche grandissime ripercussioni sull’Occidente: per sostenere i paesi arabi e mettere in difficoltà gli alleati di Israele, i paesi arabi dell’OPEC (Organizzazione paesi esportatori di petrolio) decisero un forte aumento del prezzo del petrolio a livello globale e la diminuzione del 25 per cento delle esportazioni. In pochi mesi il prezzo del petrolio quadruplicò, causando la prima crisi energetica del Dopoguerra, che segnò la definitiva conclusione degli anni del cosiddetto “boom economico”.  

Nel 1987 i palestinesi di Gaza e della Cisgiordania iniziano la Prima Intifada, una grande protesta contro l’occupazione israeliana che dura fino al 1993. È in questi anni che nasce Hamas, di cui parleremo fra poco.  

L’esito di questo periodo di tensioni sarà il punto più alto del lavoro diplomatico di tutta la storia del conflitto arabo israeliano: gli Accordi di Oslo del 1993, in cui si sancisce la nascita dell’ANP (Autorità nazionale palestinese) a cui viene data parziale sovranità su Gaza e parte della Cisgiordania. I negoziati però vengono bloccati nel 1996 dal governo di Benjamin Netanyahu, lo stesso leader che vediamo in carica in questi giorni e che mantiene una posizione di rifiuto al compromesso. 

Yitzhak Rabin, Bill Clinton e Yasser Arafat durante la firma degli Accordi di Oslo del 13 settembre 1993
(fonte: wikimedia)

Lo stallo degli accordi porta nei primi anni duemila alla Seconda Intifada. La reazione di Israele sarà l’avvio della costruzione di un muro in Cisgiordania per separare le aree abitate da israeliani e palestinesi. Intanto Israele espande gli insediamenti di cittadini israeliani in territori palestinesi, in violazione delle risoluzioni ONU e del diritto internazionale. Questa espansione e violazione prosegue fino ad oggi, senza particolari discussioni nei consessi internazionali.  

Durante la Prima Intifada Sheikh Ahmed Yassin fonda Hamas acronimo di Movimento di resistenza islamica. Lui è un’attivista dei Fratelli Musulmani un’organizzazione politica islamista presente in vari paesi dell’area. Nel suo statuto Hamas si presenta come un movimento politico islamico sunnita. Non riconosce la legittimità di Israele. Nel 1991 vengono fondate le Brigate al-Qassam, il braccio armato di Hamas e cominciano i primi attentati suicidi nei confronti di Israele. Nel 2005 vengono indette nuove elezioni dall’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) e Hamas ottiene la maggioranza in parlamento e batte Fatah, che fino ad allora era stato il primo partito, più moderato. I due gruppi politici non riescono a raggiungere un compromesso sul governo dei territori e si apre la Guerra civile palestinese. La guerra civile si conclude con la vittoria di Hamas nella Striscia di Gaza e di Fatah in Cisgiordania. Da allora Hamas esercita il controllo della Striscia anche mediante organi di governo paralleli a quelli dell’ANP, istituita dagli Accordi di Oslo. 

Carta dei territori sotto il controllo dell’autorità palestinese al 2007 (aree verdi) e degli insediamenti israeliani; la linea tratteggiata si riferisce alla situazione successiva all’armistizio del 1949. (fonte: wikimedia)

Hamas non riceve aiuti umanitari dall’Occidente, in quanto qualificata come associazione terroristica, ma in questi anni è stata foraggiata da alcuni paesi dell’area e ultimamente da Qatar, Siria e Iran in particolare. 

Da sondaggi recenti sappiamo che approssimativamente oggi in Palestina circa il 30% della popolazione sostiene apertamente la politica violenta di Hamas e questo ci deve sempre far riflettere quando guardiamo a un conflitto ai diversi piani che vi si intrecciano: quello delle persone comuni, quello della politica locale, quello delle forze e relazioni regionali e internazionali. Difficile in un quadro così articolato avere tutti gli elementi di valutazione chiari. 

Nel 2020 ci prova anche Donald Trump a proporre un piano di spartizione tra Israele e Palestina. Il piano è fortemente sbilanciato a favore degli israeliani e, ancora una volta, i palestinesi non accettano. Fallito il tentativo, Trump prova ad aggirare l’ostacolo facendo il vuoto attorno ai palestinesi mediante la costruzione di accordi, poi noti come Accordi di Abramo, con l’obiettivo di distendere le relazioni tra Israele e una parte del mondo arabo.  

Cerimonia di firma degli Accordi di Abramo, 2020 (fonte: wikimedia)

Alcuni analisti e osservatori ipotizzano che sia proprio per interrompere questo processo di distensione tra Israele e mondo arabo che Hamas abbia deciso di sferrare ora un nuovo attacco. In queste settimane, infatti, si attendeva la firma di un accordo di normalizzazione dei rapporti tra Arabia Saudita ed Israele, che in questo momento, a conflitto riacceso, slitta a data da destinarsi. 

Abbiamo visto come l’origine dei molti problemi di oggi stia nella genesi di uno stato per via di un sistema ancora pienamente coloniale. L’istituzione di Israele fu complessivamente possibile per via di dinamiche che esistevano in quel mondo, all’interno di un momento storico in cui era ancora possibile progettare iniziative o persino stati in territori occupati, conquistati o presi in gestione.  

I problemi creati attraverso questa genesi non sono mai stati affrontati in modo decisivo, gli accordi del 1993 sono stati il tentativo più avanzato del lavoro diplomatico, ma anche l’ultimo in ordine di tempo. Dopo il 1993 la questione israelo-palestinese è stata sostanzialmente abbandonata al suo destino. Israele è diventato un paese fortezza, i suoi politici hanno trascurato ogni tentativo di creare una possibilità di riconoscimento di uno stato palestinese, hanno proseguito l’attività di colonizzazione e hanno vissuto come se la questione fosse chiusa o rimossa, creando le condizioni ideali per la radicalizzazione violenta che ora è al centro del dibattito pubblico.

Oggi Israele chiede ad un popolo senza stato di riconoscerlo, è chiaramente una situazione unica e talmente complessa da sembrare di difficile soluzione. La grande difficoltà risiede negli obiettivi totalmente contrastanti che le due parti si pongono e sembra molto difficile percorrere le strade del dialogo e della diplomazia. Certo senza un passo indietro, un reciproco riconoscimento e l’avvio di un processo negoziale, l’unica alternativa che rimane in campo è quella che vediamo: il ricorso alla violenza, con esiti devastanti per le popolazioni coinvolte e pericolosi per gli equilibri internazionali. 

In India – G20 e dintorni

A Kamalapura ogni muro del paese riporta la scritta “G20” accompagnata da alcuni slogan entusiastici: “one world, one family” e altre idiozie del genere. Anche negli scorci più diseredati, tra animali e uomini che rovistano nella spazzatura, si vedono scritte colorate che ricordano il recente summit a sfondo culturale delle 20 maggiori economie mondiali, dal 09 al 16 luglio, proprio qui ad Hampi.


Gli abitanti raccontano quei giorni così: politici e delegati chiusi nell’unico resort di lusso attiguo a rovine e templi e poi blindatissimi trasferimenti con pulmini per mirate visite alle parti migliori del sito archeologico. Kamalapura ci ha guadagnato un po’ di strade riasfaltate di fresco o asfaltate per le prima volta.


Nel vasto sito di Hampi i templi si possono raggiungere tramite sterrate e strade di campagna, che seguono sinuose le forme collinari del terreno. Enormi formazioni di massi ovali accatastati gli uni sugli altri formano veri e propri rilievi e sorvegliano come ciclopi l’orizzonte, lussureggianti palmeti, fanno da cornice a coltivazioni di banane e risaie. Il fiume Tungabhadra serpeggia placido con le sue acque color tè e latte abbeverando uomini e colture.
Una signora uscita da un altro tempo, con un volto di mogano, gli occhi sottili, il corpo gracile, un bellissimo sari fucsia e argento, beve acqua direttamente dal fiume, a grandi sorsi. Lo fa con la naturalezza di chi compie un gesto quotidiano.

Lasciata la strada principale il traffico è quasi assente, noleggiamo delle bici e ci immergiamo tra campi di riso e specchi d’acqua, ibis e aironi prendono il volo al nostro passaggio. Molti lavorano nelle risaie anche sotto il durissimo sole del pomeriggio. Gli abiti delle donne colorano l’orizzonte della campagna, mentre mettono a dimora le giovani piantine di riso; gli uomini arano, con buoi o trattori, sprofondando a piedi scalzi nel fango. Non solo pietre, sono anche archeologie umane queste campagne, paesaggi che sopravvivono ai secoli.

Tutta l’area è popolata da scimmie, macachi e langoor in particolare. Saltano da palma a palma, si arrampicano sulle meravigliose sculture nei templi. La scimmia è animale venerato, Hanuman è il dio scimmia, qui gli è stato eretto un tempio sulla sommità di una panoramicissima collina. Le ripide scale che portano al tempio sono quotidianamente popolate da un interminabile serpente di pellegrini. Famiglie, uomini e donne comuni, ma anche asceti e santoni, fanno subito venire alla mente le ben più note immagini della città santa di Varanasi, o Benares come si chiamava un tempo.

Bisogna stare attenti quando ci si ferma anche solo un istante e ci sono scimmie nei paraggi: se vedono cibo o bottigliette partono all’assalto e se li prendono.
Francesca fa l’errore di passare sotto un albero popolato di scimmie con una bottiglietta di Coca Cola in mano. Viene inseguita da un macaco di una ventina di chili fino a quando non molla la presa e getta la bottiglia a terra. Rapido il nostro lontano cugino raccoglie, porta al sicuro e, svitato con facilità il tappo, beve di gusto.


Matanga Hill è un luogo appartato e commovente che domina il cuore dell’area archeologica. Si parte dalla base della collina dove c’è un ashram jainista e ci si incammina verso la vetta per un sentiero che poi diventa una scala fatta di enormi gradini di roccia, semplicemente appoggiati gli uni sugli altri. A guardarla dal basso sembra una ziqqurat babilonese.


Ad ogni rampa di scale l’orizzonte si amplia, il senso di vertigine aumenta. Sulla sommità un tempio indù disabitato. Nei suoi locali in stato di abbandono rimane una piccola statua di vacca a cui tutt’oggi vengono portati omaggi, le si vedono attorno candele e corone di fiori freschi.
Agosto ad Hampi, per via del caldo e del monsone, è considerato bassa stagione e si possono visitare luoghi incantevoli senza incontrare un turista. Si è soli al cospetto di una bellezza che, nella commistione tra fatti naturali e opera umana, è difficile restituire a parole.

Attendiamo il tramonto quassù, con i raggi rossi e verdi che si stemperano lentamente nella piana, fino all’orizzonte perso in una lieve foschia.
Mentre contempliamo assorti tanta privilegiata meraviglia, si sente un canto provenire dall’interno del tempio e avvicinarsi. Dalla porta compare un uomo che porta tutti i distintivi del santone; cammina lentamente verso il sole recitando dei mantra, poi si ferma, si gira verso di noi, e resta immobile, tra noi e il sole, fissandoci in silenzio per qualche lungo minuto. L’atmosfera è irreale. Dopo un lasso di tempo indefinito riprende la via del tempio, ci passa di fianco, ci chiede con fare ieratico da quale paese proveniamo e poi, dandoci le spalle, rientra nell’edificio e si volatilizza.

Tante volte, signori e signore, questo paese sa essere sfacciatamente, meravigliosamente, cinematografico. Quando capito dentro scene come questa, resto sempre sospeso in una sensazione tra gratitudine e incredulità. E qui mi capita con una frequenza e un’intensità che sinceramente non ricordo altrove.