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Cartoline dai Balcani – Il nodo di Kulen Vakuf

Da Banja Luka si può prendere una strada o una ferrovia (corrono una di fianco all’altra) che si inoltrano per duecento chilometri tra boschi, canyon fluviali e asperità rocciose varie per spingersi fino a Bihać, confine di nord ovest con la Croazia.
Si risale la valle del fiume Una e si finisce dritti nel cuore del parco nazionale che proprio dal fiume prende il nome.

La valle del fiume Una

In questo incanto vegetale, ai margini del mondo abitato, dove in questi giorni sembra già autunno, ormai da anni c’è un flusso umano che scorre ininterrotto.
Tra le boscose montagne attorno al paese si nasconde il confine. Lassù quotidianamente alcuni gruppi di persone – uomini, donne, bambini, anziani – salgono silenziosamente di notte guidati dal proprio passeur nel tentativo di vincere il game, come lo chiamano con macabra disilussione da queste parti: di passare in Croazia ed entrare nello spazio Schenghen per poter fare richiesta di protezione internazionale e mettersi alle spalle una vita difficile.
Il risultato non è scontato: sono più le volte che si viene randellati, derubati e rimandati in Bosnia dalla polizia croata, facendo ritorno al campo di Bihać pieni di lividi, ferite e in mutande.

A raccontarci queste cose a pochi passi dall’inferno in terra è una delle responsabili che per conto di Ipsia è in Bosnia da tanti anni e gestisce i campi profughi qui e a Lipa.
Va detto, senza scomodarsi per venire fino a qui, ci sono dossier, articoli, libri, documentari di signori giornalisti che possono colmare ogni vuoto di conoscenza. Non sapere, insomma, già da molto tempo, è una scelta.

Lassù tra le nuvole il confine con la Croazia

A Bihać, tra queste foreste, arrivano solo i poveri cristi, quelli che il game lo giocano a piedi (200/300€), chi ha avuto la possibilità di spendere di più tenta altre vie: passaggi automobilistici (2/3000€), camion (4000€), chi ha 6/7000 euro una barca a vela per partire dalle coste turche e provare direttamente ad attraccare a Roccella Ionica (storie di questi giorni).
Chi arriva nella Bosnia settentrionale è in viaggio da mesi, forse anni, ha vissuto tutti i contorcimenti e le ipocrisie della politica europea in materia di politiche migratorie, scelte e cambi di linea dal giorno alla notte sulla sua pelle. Sono siriani, iracheni, afgani, in fuga dalla guerra o dalle sue conseguenze.

Nei primi anni in cui la cosiddetta rotta balcanica si è generata i flussi risalivano in linea retta passando per Grecia, Macedonia, Serbia e Ungheria. Poi è storia nota: Orban in Ungheria decide di spendere una caterva di soldi pubblici per costruire più di 500 km di recinzione alta tre metri e mezzo, sigillando il passaggio con l’esercito pronto a sparare, e il fiume umano, per la legge dei vasi comunicanti, inizia a fluire in altre direzioni, tra cui quella di Bosnia e Croazia. Bihać lontano da tutto e da tutti diventa un nodo nevralgico, il punto di passaggio.
Fino all’inverno 2015 il transito era di migliaia di persone ogni settimana. L’Unione Europea un po’ provava a chiudere, militarizzando e usando violenza, un po’ concedeva aperture per salvare la faccia. Poi è arrivato il tristemente noto accordo con la Turchia del nostro alleato Erdoğan: 6 miliardi di euro / anno per tenere il popolo in cammino fermo, lontano dalle terre europee, trattenendolo in qualche campo profughi anatolico.
Da dopo quell’accordo a oggi di qui sono passate 70.000 persone.

L’Ipsia oltre a gestire questi campi ha attivato alcuni progetti per incentivare il turismo nel parco nazionale dell’Una. Siamo in Bosnia, del resto, un paese che dalla guerra è uscito a pezzi senza mai riprendersi davvero. Come ci ha detto qualcuno nei paraggi: “l’Europa occidentale vive una sindrome da Piano Marshall, pensa che dopo le guerre inizi la ricostruzione, la rinascita. Qui semplicemente non è andata così”.
I fronti d’aiuto da presidiare sono insomma ancora tanti e diverse sono le Ong impegnate in giro per il paese.

Kulen Vakuf

Uno di questi progetti, sempre a cura dell’Ipsia, coinvolge le famiglie del villaggio di Kulen Vakuf, gli ingredienti sono pochi ma ottimi: ospitalità in famiglia, cucina deliziosa e una sconfinata natura attorno.

Vallate di nubi basse e foreste di latifoglie verdissime portano la mente a qualche landa più settentrionale, ma poi scorrendo il paesaggio saltano all’occhio i minareti bianchi delle moschee che fissano come puntine la presenza dei singoli villaggi e si capisce di essere su un confine.

Mangiamo alla locanda, stufato e dolcetti alle prugne, poi andiamo a dormire con la finestra socchiusa sulle acque del fiume. Era estate qualche giorno fa nel catino mediterraneo di Kotor, ora sembra autunno, il tempo e lo spazio nuovamente si confondono.
Prima di addormentarmi, rimastico i discorsi del giorno, penso alle persone che anche stasera non lontane da qui risaliranno la montagna per provare a passare e, nonostante i mielosi dolcetti, ho l’amaro in bocca. E quel che è peggio: non vedo nessun pur flebile miglioramento in vista, in me sento il minino grado di fiducia nella politica.

A Barzanò con Pippo Civati

Dopo tanti anni che seguo e leggo Civati, grazie all’Associazione MOLO di Barzanò,  venerdì sera avrò piacere di fargli qualche domanda a partire dal suo libro “Voi Sapete – L’Indifferenza Uccide”. Sarà occasione per parlare anche del suo recente lavoro con la Senatrice a vita Liliana Segre (Il Mare Nero dell’Indifferenza).
Locandina Civati (1)

Da questa parte del mare – Le rotte verso nord

Il giorno seguente ci spostiamo tutti insieme a Oujda, per partecipare al funerale in rito islamico del giovane Halim.

In Marocco la convivenza tra chiesa cristiana e Islam è di non interferenza. Un musulmano non può frequentare la chiesa cristiana e un cristiano non può entrare in moschea, ma della chiesa è accettata la presenza e data libertà di azione per i rapporti con i suoi fedeli.

Noi restiamo fuori dalla moschea, ma dopo la preghiera accompagnamo alla sepoltura il feretro del giovane, che era ospite al campeggio ormai da qualche mese. Alla sepoltura con rito islamico, segue un momento di preghiera cattolico. I compagni di campeggio di Halim partecipano ad entrambi con estrema intensità, qualcosa che è difficile scrivere.

Tornati in parrocchia, Padre Antoine ci accompagna in un giro per la struttura: “Abbiamo cercato di riadattare gli spazi al meglio per accogliere i giovani in arrivo. Nel solo mese di giugno abbiamo avuto più di 100 arrivi. Molti si fermano pochi giorni, qualcuno dei mesi, altri restano in Marocco definitivamente”.

La procedura è sempre la stessa: “Per prima cosa chi arriva da mesi di vita difficilissima ha bisogno di lavarsi ed essere visitato, per capire se ci sono specifiche esigenze mediche. Poi necessita un pasto caldo e un posto letto. Nei giorni seguenti la persona viene inserita nella vita della comunità. Sono ragazzi a cui spesso serve riguadagnare le regole base dell’interazione sociale, cose semplici come un “grazie” e un ”prego”, l’attenzione al vicino di tavolo, cose che si sono perse nel percorso di orrore e barbarie che hanno vissuto fino a lì (un percorso che può durare da mesi a due o tre anni). I giovani imparano a cucinare e mangiare insieme, occuparsi degli altri e mantenere in ordine gli spazi comuni. Poi arriva il momento di riflettere insieme sul percorso che stanno facendo, su cosa è importante per loro. A seconda delle loro capacità e inclinazioni cerchiamo di offrire delle possibilità di formazione professionale in loco: elettricisti, muratori qualificati, piastrellisti, installatori di pannelli fotovoltaici e così via.

Molti di loro davanti a questo bivio scelgono di rimanere in Marocco e darsi un’opportunità di formazione, abbandonando l’idea che la soluzione unica sia rischiare il salto (senza reti) verso l’Europa”.

Durante la visita agli spazi, lasciamo diverse valigie piene di vestiti che abbiamo raccolto nelle settimane precedenti alla partenza. Padre Antoine ci ringrazia: “con il numero di arrivi che avete sentito tutti questi abiti ci saranno molto utili. Qui d’estate fa caldo e d’inverno fa freddo: serve di tutto”.

Per la sera ci offriamo nuovamente di preparare una pizza: mentre siamo seduti cercando di capire come operare in cucina, abbiamo occasione di parlare un po’ con alcuni dei migranti ospitati in parrocchia.

Ci raccontano la loro storia: due sono della Guinea, uno del Camerun, un altro del Senegal. Qualcuno è felice di raccontare, altri sfuggono alle domande e hanno occhi che parlano per loro e dicono degli orrori a cui hanno dovuto assistere lungo la rotta che li ha portati qui.

Le storie hanno diversi punti in comune: partono dai paesi d’origine a sud del Sahara, dove si paga una cifra attorno alle 150 euro per farsi portare in Mali. 150 euro in quei paesi equivalgono alla paga di tre mesi. Arrivati in Mali si viene rinchiusi in case che i ragazzi chiamano “foyer”. Qui chi ha i soldi può attendere una delle prossime partenze. Gli altri vengono trattenuti e obbligati a contattare le famiglie affinché inviino loro i soldi necessari. Le famiglie vengono minacciate e se i soldi non arrivano i ragazzi possono essere semplicemente abbandonati nel deserto al loro destino.

Un altro modo per raggranellare le somme necessarie è quello di provare a lavorare lungo le varie tappe del viaggio. I lavori che si possono ottenere da migranti di passaggio sono però spesso schiavistici, pagati poco o niente, pericolosi. Moussa ci dice: “puoi lavorare per gli arabi, ma non c’è certezza di essere pagati. Ci sono ragazzi che hanno lavorato per mesi senza poi vedere alcun soldo. Oppure puoi lavorare per i cinesi: pagano sette euro al giorno, ma chiedono di lavorare fino a 14 ore. Io ho lavorato per loro nel cantiere per costruire un tunnel autostradale in Algeria: chiedevano ritmi insostenibili e soprattutto le condizioni di lavoro erano pericolose. A un certo punto non ce l’ho più fatta a sopportare fatica e paura e ho deciso di andarmene”.

Dalle città maliane servono altre 250 euro per raggiungere il nord dell’Algeria e avvicinarsi al mare. Il viaggio per le vie del deserto avviene su pick up carichi all’inverosimile. Si viaggia anche in 12/14 persone. Se il mezzo prende una buca e qualcuno cade la marcia non si ferma.

Arrivati a nord dell’Algeria i ragazzi si rendono ben presto conto che la situazione è a rischio per i frequenti rastrellamenti organizzati dalle autorità algerine, la via più facile per l’Europa diventa così il Marocco. Altri foyer, altri soldi da pagare per passare il confine. Chi non ha soldi si accampa nella foresta nei pressi della frontiera e tenta passaggi disperati. Due dei ragazzi che si stanno raccontando sono stati catturati dalla polizia di frontiera marocchina che, però, non li ha respinti: li ha spogliati di tutto e li ha lasciati proseguire.

Mentre i ragazzi raccontano Padre Antoine, recatosi in stazione per accompagnare uno studente, torna con un nuovo ragazzo: “lo abbiamo trovato disorientato e senza un soldo in tasca e gli abbiamo offerto ospitalità”. Ci rendiamo conto che questo lavoro prosegue così 24 ore su 24.

A un certo punto Paolo domanda: “Ma avevate idea di quali ostacoli e sofferenza vi avrebbero atteso lungo la strada? Eravate informati?”.

La risposta di tutti e quattro è no, non sapevamo. Le notizie che girano a sud del Sahara sono diffuse ad arte dai trafficanti e alimentate dalle false buone notizie che manda a casa chi ha raggiunto l’Europa e deve dimostrare agli occhi delle famiglie di origine di “avercela fatta”, di aver avuto successo. Cattiva informazione che ha un gran nemico naturale: una scuola fatta bene, un buon livello di istruzione.

Poi il racconto continua. Una volta in Marocco ci sono diverse sorti possibili condizionate sopratutto dai soldi che si hanno o non si hanno in tasca. Chi non ha soldi si accampa nelle foreste fuori dai confini spagnoli di Ceuta e Melilla, cercando disperatamente di scampare alle retate della polizia marocchina e di riuscire poi scavalcare in un raro momento propizio le reti che recintano i due territori spagnoli in Marocco.

Altri tentano con imbarcazioni precarie e canotti gonfiabili di spingersi in acque internazionali sperando che siano poi la Croce rossa spagnola l qualche ONG a recuperarli. Si tratta di un rischio enorme.

Per chi ha qualche soldo in più i trafficanti organizzano atrraversamenti in barca; come in un menù le cifre variano a seconda del tipo di imbarcazione scelta: più è grossa e sicura e più il viaggio costa.

Per chi ha la spropositata cifra di 2500 euro esiste anche una specie servizio di attraversamento in barche in buono stato e con più tentativi a disposizione. Se un viaggio va male, perché fermato dal maltempo o dalle guardie costiere, si può riprovare. Con queste cifre il servizio diventa professionale: i soldi vengono bloccati su un conto corrente e scalati solo all’arrivo a destinazione.

Noi spendiamo sempre più soldi per irrobustire i controlli e più controlli e difficoltà ci sono e più si alzano i tariffari. I trafficanti si arricchiscono proprio grazie al nostro sistema di controllo. Davanti a queste storie i numeri statistici e i flussi migratori diventano ragazzi che hanno solo voglia di vivere dignitosamente, di avere un lavoro, potersi vestire meglio, mangiare ogni giorno, mandare soldi a casa. I numeri diventano persone e tutti i nostri ragionamenti da lontano si sciolgono come neve al sole. Quando ci decideremo a costruire canali di informazione e corridoi umanitari che evitino la proliferazione di business criminali e tanto dolore e sofferenza? Perché mai un giovane italiano dovrebbe avere il diritto di andare a Londra per guadagnare di più o imparare un’altra lingua e un camerunense no?

Cristiano a nome di tutto il gruppo racconta ai ragazzi di come gli italiani stessi siano stati e siano un popolo di migranti (dal 2011 in avanti, va ricordato, sono più i giovani italiani che lasciano il paese che gli immigrati in arrivo!) e che se anche in questo momento tira una brutta aria, siamo un popolo capace di accogliere e all’interno del quale tante organizzazioni e associazioni come la nostra operano per creare una rete di supporto e diffondere una cultura dell’accoglienza.

Ci ringraziamo più volte per il breve confronto che abbiamo avuto e ci diamo appuntamento poco più tardi per una fetta di pizza insieme. Pensiamo a quanto sarebbe utile per chiunque, di questi brutti tempi, avere l’opportunità di dare un nome e un volto ai “flussi migratori”, guardare in faccia questi ragazzi e ascoltarli.

Da questa parte del mare – Al campeggio di Saidia

Arriviamo a Saidia, piccolo paese costiero prima del confine algerino, che è tarda sera. Ad accoglierci nel camping allestito dietro la chiesa da Padre Antoine Exelmans, ci sono solo una ventina di studenti provenienti da ogni angolo d’Africa; ragazzi che studiano in Marocco grazie a delle borse di studio internazionali e che nel campeggio stanno facendo un’esperienza di conoscenza e condivisione con i migranti che che passano di lì.

Oggi al campo però ci sono solo studenti. Arriviamo in un momento tragico per la comunità di migranti, poche ore prima del nostro arrivo un giovane di 17 anni, Amil, è morto annegato nel mare lì davanti. Padre Antoine e gli altri sono quindi rientrati nella casa accoglienza di Oujda – chiesa sede principale di lavoro per Padre Antoine – a un’ora di strada da lì, per denunciare l’accaduto alle autorità e preparare il funerale.

Nonostante la tragedia gli studenti ci accolgono come veri padroni di casa, ci mostrano le tende in cui possiamo alloggiare, i servizi, ci offrono qualcosa da mangiare.

Il giorno dopo lo passiamo insieme, in attesa di incontrate Padre Antoine di ritorno dalla città con notizie in merito alla cerimonia funebre per Amil.

Cuciniamo insieme la pasta e la pizza, andiamo in spiaggia, chiacchieriamo; insomma passiamo una giornata dove cerchiamo di vivere comunque con serenità. Gli studenti ci raccontano da dove vengono, cosa studiano, quali sogni anno. Ci sono ragazzi provenienti da diversi paesi francofoni dell’Africa occidentale e dal Madagascar. Ingegneri, studenti di medicina ed economia, studenti di legge. Ragazzi seri, educati, con grandi speranze in testa. Piuttosto consapevoli di come vanno le cose nel mondo, per quanto consapevole possa essere un ragazzo di vent’anni. Qualcosa di molto diverso dall’immagine dei giovani africani che più frequentemente arriva in Europa. Una parte fortunata delle loro rispettive comunità, si dirà e certo è così, ma anche il futuro di un continente che, dalle nostre parti, continuiamo a non voler vedere né considerare.

Padre Antoine arriva nel pomeriggio e ci racconta il perché in quel campeggio e a Oujda ha iniziato a intraprendere un’attività di assistenza ai migranti in arrivo dal confine algerino.

“Nel 1994 sono rimasto scosso dalla vicenda del genocidio in Rwanda. Mi sono detto: davanti a una cosa simile non possiamo rimanere davanti alla televisione e continuare a blaterare. Realizzare il messaggio del Vangelo è un’altra cosa. Chiesi al mio vescovo di allora di lasciarmi partire per l’Africa centrale. Lasciai quindi la Bretagna e atterrai per tre anni nella Repubblica Centrafricana, dove mi sono occupato, tra le altre cose, della pastorale giovanile. Sono poi tornato in Francia allo scadere di quei tre anni e ho inziato a pensare a come agire concretamente anche nel mio territorio di origine”.

Antoine non ha dubbi sulle sfide che la chiesa cattolica francese sarà chiamata ad affrontare: “Per me sono due – dice – l’accoglienza dei migranti e il dialogo con l’Islam”.

“Ho iniziato a lavorare in patria sul tema dell’accoglienza e sono andato avanti per tre anni. Dopo qualche tempo ho chiesto al mio superiore di poter tornare in Africa. Credo che solo chi lavora da questa parte del mare comprenda davvero un fenomeno di cui noi vediamo sempre e solo la coda. Così sono tornato prima di nuovo nella Repubblica Centrafricana e poi sono arrivato in Marocco”.

Parliamo ancora un po’ all’ombra delle piante del campeggio, bevendoci un caffè, fatto con materia prima e moka portate in dono dall’Italia.

“Ho iniziato a lavorare qui a Oujda e Saidia perchè siamo molto vicini al confine con l’Algeria. Qui arrivano i ragazzi che scappano dai loro paesi nell’Africa subsahariana. Passano dal deserto, risalgono l’Algeria e poi cercano la via per il Marocco. I motivi sono diversi: il Marocco, con le exclaves spagnole di Ceuta e Melilla e lo stretto di Gibilterra, è la porta più vicina per l’Europa. In secondo luogo, rimanere in Algeria è pericoloso perchè il governo adotta delle politiche di respingimento dei migranti barbare: a volte i migranti vengono presi, spogliati di tutti i loro averi e rispediti verso sud, abbandonati in località nel bel mezzo del deserto, lasciati lì al loro destino”.

Padre Antoine non lo specifica, ma è probabile che il deterioramento della situazione libica faccia il resto, dirottando parte dei flussi migratori più a ovest.

“Così – prosegue il parroco – molti di loro una volta a nord dell’Algeria provano a varcare il confine col Marocco. Se hanno soldi a sufficienza proseguono diretti verso le porte d’Europa, nella speranza di attraversare il mare ed essere accolti in Spagna; altrimenti, una volta superata la frontiera arrivano qui, in città e, o per loro volontà, con il passaparola, o perché li intercettiamo noi, vengono al campeggio o in parrocchia.

Qui non ci occupiamo di favorire il loro passaggio in Europa. Qui diamo un pasto, dei vestiti, umana vicinanza e una ri-educazione di base a persone che dopo mesi di viaggio non hanno più niente, fuori e dentro. Cerchiamo di creare le condizioni per le quali i ragazzi possano fermarsi in un posto sicuro in cui confrontarsi e riflettere, magari arrivando a capire che quel che stanno facendo, se tentare la traversata verso l’Europa, è davvero il loro obiettivo”.

Come venga operata concretamente questa accoglienza e la possibilità di riflettere insieme Padre Antoine ce lo spiegherà il giorno successivo a Oujda.

L’invasione?

IMMAGINE_1Siamo invasi? Dobbiamo difendere le nostre radici? Diventeremo l’Eurabia profetizzata dalla Fallaci? Stiamo accogliendo davvero tutti? Fulvio Scaglione, vicedirettore di Famiglia Cristiana, cerca di abbattere con i dati i principali luoghi comuni sul tema, restituendone i confini precisi.

Pieno di dati non nuovi, ma utili da tenere presenti, un nuovo articolo per Vorrei.