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A Barzanò con Pippo Civati

Dopo tanti anni che seguo e leggo Civati, grazie all’Associazione MOLO di Barzanò,  venerdì sera avrò piacere di fargli qualche domanda a partire dal suo libro “Voi Sapete – L’Indifferenza Uccide”. Sarà occasione per parlare anche del suo recente lavoro con la Senatrice a vita Liliana Segre (Il Mare Nero dell’Indifferenza).
Locandina Civati (1)

Il pericolo percepito e la paura reale

In questi anni di certo la paura per la criminalità si è diffusa molto, spesso associandosi nel discorso pubblico al fenomeno migratorio con un’equazione piuttosto semplice: più immigrati, più reati sul territorio. I dati però, spiega Cornelli, dicono altro:  «L’aumento dei reati in Italia è avvenuto in un periodo in cui i flussi migratori erano minimi e quasi tutti legati a  comunità consolidate: i filippini che svolgevano mansioni domestiche durante gli anni ottanta, per fare un esempio. Negli anni Novanta cresce il numero degli immigrati, ma in un panorama in cui il numero di reati diminuisce o resta stabile. Ad esempio, in quegli anni assistiamo a una sensibile diminuzione degli omicidi».

Elia Aureli di CambiaMenti con Cornelli
Elia Aureli di CambiaMenti con Cornelli

Un nuovo articolo scritto per Vorrei propone l’analisi di Roberto Cornelli, criminologo della Bicocca, che indaga il rapporto tra percezione collettiva e politiche di ordine pubblico.

 

La custodia del fuoco

«“La dittatura aveva organizzato due strutture repressive: una legale e l’altra illegale. La prima, con un bel teatrino di tribunali e carceri, serviva da copertura agli assassini. Agivano in gruppi perfettamente organizzati e coordinati, che i militari e la polizia chiamavano “operativi”, la gente patotas. Quasi sempre si trattava di gruppi misti di appartenenti ai vari corpi dell’esercito e delle forze dell’ordine. Per non essere riconosciuti si chiamavano tra loro con nomi di battaglia: Fragote, Raviol, Chacal, Chispa, Ratòn…” riprese a raccontare dopo aver riempito d’acqua il bollitore. “Arrivavano a qualunque ora della notte e del giorno. Mascherati e armati entravano nelle case sfondando la porta, urlando e sparando. Portavano via sempre qualcuno, a volte famiglie intere. Quando trovavano dei bambini, se non erano morti durante la sparatoria iniziale portavano via anche loro. Raramente li lasciavano ai vicini, o li abbandonavano per strada. Se erano neonati o molto piccoli, li vendevano o regalavano a famiglie di militari e poliziotti che non potevano avere figli. Quando però la patota sequestrava una donna incinta, il cattolicissimo esercito argentino, con un controllo medico costante perché non morisse o abortisse a causa delle torture, si premurava di tenerla in vita fino al parto per poi strapparle il neonato partorito su qualche tavolaccio o lurido pavimento di una cella e regalarlo o venderlo al miglior offerente. C’era addirittura un tariffario. I prezzi variavano a seconda della bellezza della madre e del suo stato sociale…” “ E poi?” “A quel punto la madre veniva eliminata. Come tutti gli altri.” “E le donne sapevano che avrebbero fatto quella fine?” “Si. Incredibilmente i casi di aborto furono davvero pochi. Sopportarono tutto con grande coraggio, attaccandosi alla vita con le unghie pur di portare a termine la gravidanza. Dare la vita a quei bambini era il loro testamento. Un atto d’amore…  e di ribellione…” “Estela” lo interruppi, “ mi ha detto che sua figlia Laura è stata assassinata. Non ha usato il termine desaparecido. Come mai?” “Perché è stata ritrovata. I famigliari te lo spiegheranno nei particolari. E’ una vicenda molto lunga… e crudele. Dopo il parto la portarono in una strada deserta e le spararono. Non ricordo se alla nuca o in faccia. Sicuramente il secondo colpo al ventre, con un fucile a pompa, per tentare di occultare la maternità”.»

Questa è una pagina tratta da “Le irregolari” di Massimo Carlotto. Un libro che ripercorre in modo intenso e dettagliato alcuni degli anni più neri della storia argentina, quelli della dittatura fascista e della sistematica desapariciòn di oppositori politici ma anche di semplici civili e, al contempo, pagine che raccontano la lotta delle Nonne e delle Madri di Plaza de Mayo per ottenere giustizia dopo quegli anni infami e ritrovare i propri figli scomparsi. La propongo alla vostra lettura oggi, 27 gennaio, Giornata della Memoria, per due motivi. Il primo motivo: per ricordare che il nazismo di Hitler è stato solo una delle molte forme in cui l’uomo ha manifestato e manifesta il suo lato bestiale. Un lato sempre presente, che oggi troviamo nelle violazioni della vita in Arabia Saudita, in Siria, in Palestina, solo qualche anno fa nella caserma di Bolzaneto, a Genova. E mi fermo: l’elenco sarebbe troppo lungo. L’elenco delle orrende torture, delle macellazioni di persone vive, dei sepolti vivi, degli stupri di ragazze, degli strappati alle madri, alle famiglie, dei figli venduti. Nelle pagine di Carlotto viene raccontato tutto questo orrore, mesi e mesi di efferatezze e violenze, di cancellazione dei diritti umani  e delle identità. Sanguinarie crudeltà, tali e quali a quelle della seconda guerra mondiale e ben più recenti. E’ uno dei molti esempi purtroppo possibili ed è lì per sottolineare un dato di fatto: Auschwitz non fu un errore della storia, ma fu una costante (in forme neanche tanto diverse) nella storia. Non fu un errore dell’Uomo, ma parte dell’Uomo. E quando leggo assurdità come questa credo sia il caso di ribadire che la difesa dei diritti umani deve esercitarsi contro ogni fascismo, contro ogni  nuovo colonialismo.

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Mahler diceva della tradizione che essa: «non è culto delle ceneri, ma custodia del fuoco», è un concetto che mi piace molto e che, prima di tutto come insegnante, credo si debba trasferire dritto dritto dentro questi giorni della memoria. Se ci si ferma a contemplare le gallerie degli orrori, dei campi di concentramento, dei corpi divelti, degli oggetti accatastati, senza che a questa contemplazione  segua un momento di riflessione che coniughi al presente il macabro spettacolo, allora quella contemplazione finisce lì, non rinnova, non produce senso e voglia di agire per “custodire il fuoco”. L’orrore è quel che non deve più succedere, ma non basta di per sé a dire cosa vogliamo per noi e il nostro futuro.

I fascismi nacquero nel paesaggio frantumato e turbolento che seguì al 1918, durante una crisi profondissima: la prima guerra mondiale, devastante, ebbe costi sociali ed economici mai visti prima, le strutture del potere che per secoli assicurarono gli equilibri europei collassarono rapidamente, il crollo degli imperi centrali diede il via a una frammentazione territoriale tumultuosa e ad una crisi di rappresentanza, di identità, di gestione del potere, senza precedenti. Il colpo di grazia arrivò con la crisi del ’29, che riversò i suoi effetti anche sull’economia europea. Senza un centro di potere riconosciuto, davanti alle crescenti difficoltà politiche e materiali e all’apparente assenza di soluzioni possibili, assistemmo all’ascesa di regimi di estrema destra, violenti e fascisti, in quasi tutti i paesi, pochi esclusi (democrazie di lungo corso e, per altre meno nobili ragioni, la Svizzera). Senza un sistema di valori chiaro, in una situazione di difficoltà, spesso ottengono credito coloro che propongono soluzioni sbrigative, preferibilmente fondate su parole d’ordine quali “ordine” e “sicurezza”. Ovvero, che illusoriamente promettono di realizzare quel che è assente (e irrealizzabile) in quelle circostanze. La Memoria dovrebbe servirci a capire e ricordare il perché ci piace e preferiamo vivere in un Paese democratico, perché dobbiamo tenere ben presente davanti a noi le cose che per noi sono importanti; perché dobbiamo informarci, diventare competenti, per poter trovare soluzioni e agire politicamente affinché libertà e diritti si affermino in modo solido, per isolare gruppi di violenti e ignoranti che sempre assediano strade e televisioni.

E così, ecco il secondo motivo per cui vi propongo oggi il libro di Carlotto, perché sono pagine che, oltre a cartografare l’orrore, omaggiano la lotta portata avanti da tante donne argentine  per costruire un Paese migliore. Vi lascio quindi con questa pagina che credo dica meglio di me, quale deve essere l’importanza di questo giorno e del nostro essere sempre “politici”, del nostro prendere parte, del nostro essere mai indifferenti pensando che ciò che succede nel mondo non ci riguardi direttamente.

«In Argentina non c’è giustizia, c’è solo impunità, violenza perversa, corruzione. Menem blatera di miracolo economico ma ogni venti minuti un bambino muore di fame, ogni giorno trentasei muoiono per mancanza di assistenza sanitaria e le malattie della miseria si diffondono sempre più. La verità è che stanno costruendo una società malata dove la gente accetta una manciata di pesos per i propri morti e gli assassini non vanno in galera. E’ concepibile accettare soldi dalla stessa mano che ha firmato l’indulto per i criminali? In questo paese il capitalismo prima ti ammazza e poi ti risarcisce. Ma cosa se ne farà poi la gente di quel denaro? Tutto quello che comprerà puzzerà di morte. So che le mie sono parole dure ma accettare il risarcimento significa prostituirsi perché così si tradiscono i nostri figli e gli ideali per cui hanno dato la vita. Così si perde il senso della lotta collettiva perché il denaro serve solo a farti diventare individualista. Io ho iniziato a lottare per i miei figli, ma oggi lotto per i desaparecidos di tutto il mondo, per i pereseguitati, per chi occupa le terre, per gli operai e gli studenti. Io non voglio passare la vita a raccontare come li ammazzarono perché loro non mi hanno insegnato questo. Jorge e Raùl amavano la vita, il comunismo, l’utopia del hombre nuevo: solidale, comunitario, collettivo. Le madri della Linea Fundadora e le Nonne vogliono apporre delle lapidi nelle facoltà universitarie con i nomi dei desaparecidos che le frequentavano. Io ho detto che non si permettano di mettere i nomi dei miei due ragazzi: loro non sono stati sequestrati perché studiavano fisica o legge ma perché erano dei rivoluzionari. Noi non vogliamo le liste dei morti, vogliamo le liste degli assassini. Noi non dimentichiamo, né perdoniamo e non ci interessa coltivare la cultura della morte. Accettare la morte dei nostri dei nostri figli significa accettare l’impunità dei responsabili dei crimini della dittatura. Non solo. Significa anche accettare come è stata riscritta la storia della dittatura dagli scrivani della democrazia, i quali hanno riproposto quella che noi chiamiamo la teoria dei due demoni. Il primo è la guerriglia di sinistra che porta con sé il peccato originale di aver imboccato la via della violenza e di aver provocato l’intervento del secondo demonio: le forze armate. In questo modo, colpevolizzando tutti, mettendo sullo stesso piano vittime e assassini, si assolvono questi ultimi. E’ un’enorme menzogna: la scomparsa forzata di molti fu un progetto ben preciso di annientamento dell’opposizione politica e non una semplice reazione all’esistenza di formazioni armate di sinistra. Bugie! I governanti non sanno dire che bugie. Io ogni giovedì chiamo immondizia il presidente Menem e lui in tanti anni non è riuscito a dimostrare che non lo è. Noi non trattiamo con nessuno. La nostra linea è chiara. Ci hanno chiamate in tutti i modi: pazze, terroriste, comuniste. Ci odiano perché abbiamo condiviso la nostra maternità, perché viviamo in modo comunitario, perché non siamo le classiche vecchiette piegate dal dolore e dalle disillusioni. E ci odiano soprattutto perché non siamo come le altre: siamo irregolari e chiediamo alla gente di disobbedire, perché senza giustizia non può esserci democrazia.»

Geografia del colonialismo (contemporaneo)

Ogni anno, nelle classi in cui il programma lo permette, torno sulla geografia del colonialismo. Un di più che mi costa una settimana di smadonnamenti da parte dei destinatari. Poi le cose vanno via via migliorando.
Dopo aver circoscritto il presente, tengo molto a riavvolgere il nastro fino al 1500 perché altrimenti mi viene proprio difficile spiegare la – quando si leggono i dati, difficile da credere – situazione in cui siamo finiti oggi. Quella del famoso 20% della popolazione che detiene l’80% delle risorse e viceversa.
Non è l’unica cosa a cui mi serve. Senza ripercorrere, pur sinteticamente, gli ultimi secoli mi vien difficile spiegare  anche molte altre cose: perché in Brasile si parla portoghese, perché la metà dei paesi dell’America meridionale hanno nomi di santi o fatti religiosi, perché tendiamo ancora a guardare il mondo dalla prospettiva dei conquistatori, nonostante la leadership sia ora – quantomeno – condivisa.


Nonostante questi e tanti altri buoni motivi, metto sempre in dubbio il percorso che seguo. Sempre. Ogni anno, ogni volta, per ogni argomento. Cerco di non sedermi, di aggiustare il tiro, di sentire il polso, mio, degli studenti che ho davanti, della situazione che abbiamo intorno.
Ecco, se un dubbio sull’utilità didattica di tornare indietro, sulle tracce del colonialismo, aleggiava anche quest’anno, i fatti dei giorni scorsi l’hanno azzerato, spazzato via. L’ultimo episodio lampedusano – apice ruomoroso di una storia che va avanti da anni in un quasi silenzio – ha sollevato un polverone di reazioni, opinioni, invettive, e, nel caos che ha generato, è servito a far emergere la grande bolla di ignoranza che avvolge questi temi in tutta la sua enorme insostenibilità.
La necessità di tornare sulla macabra storia del colonialismo mi è sembrata così non solo una necessità, ma un dovere, per far conoscere e comprendere la geografia che ha disegnato un mondo di opposti. Se non si riparte da lì si rischia di non avere ben chiari i termini della questione.
Il collega Alessandro Santini, via facebook, racconta e riflette su un episodio che la dice lunga.

«La settimana scorsa in classe (una quarta, mi pare) una ragazza mi ha chiesto:
– “Prof, ma perché bisogna soccorrere questi barconi che arrivano vicino alle coste italiane?”
Le ho risposto che se non venissero aiutati, questi barconi affonderebbero e moltissime persone morirebbero annegate. Ho notato che la risposta non l’aveva convinta, al che le ho chiesto:
– “Se questi barconi fossero pieni di gattini, cuccioli, teneri teneri, li lasceresti annegare?”
– “No di certo!” ha risposto subito.
– “Quindi salviamo i gatti e lasciamo annegare le persone?”
Non ha ribattuto, era un po’ più convinta di prima.
Il problema è che li vediamo come uomini un po’ meno uomini e donne un po’ meno donne. Tutti, io compreso. Ed è una cosa triste se ci pensi, a prescindere da qualsiasi altro discorso.»

Ripartire dalla geografia del colonialismo per avere chiari i termini della questione non servirà di per sé a trovare soluzioni ai problemi che i flussi migratori pongono e porranno in futuro, ma  a creare una base di ragionamento e quel senso civico (che la conoscenza del passato irrobustisce) utili  a dare giusta considerazione a questi temi e ad avviare un dibattito costruttivo in merito.
Un buon corso di geografia può contribuire, deve contribuire, a evitare di cadere nei tranelli del luogo comune e della risposta istintiva. Come? Fornendo a chi studia un’immagine chiara delle condizioni di vita che caratterizzano le altre aree del pianeta.
Gilioli, come nel suo stile, qualche giorno fa, riassumeva la faccenda in modo secco e veloce.

«Credono che qui sia il Bengodi» è peggio di «aiutiamoli a casa loro» .
Chi lo dice vada un paio di mesi a lavorare a un telaio, di quelli dentro i garage, in Bangla Desh. O a spingere l’aratro con le spalle come ho visto fare in un campo d’aglio in Birmania. O a spostare sacchi di mattoni alla periferia di Kathmandu.
Tutto è relativo, cari leghisti.
Fate un po’ quella vita, poi capirete che per un paio di miliardi di persone qui È il Bengodi.

Non serviranno come si leggeva qualche giorno fa su Il Foglio  “fucili puntati e dobermann” a fermare questi flussi migratori, perché quei ragazzi scappano da situazioni peggiori (e di molto); situazioni che è ora di conoscere e tenere presente. Un esempio del lavoro da fare lo fornisce Enrico Casale dalle pagine di Popoli.
Il colonialismo è ancora vivissimo, nel nostro modo di guardare le cose (come spiega con grande precisione e semplicità Andrea Segre), in certe prese di posizione, nelle politiche che stiamo attuando sul tema delle migrazioni e in altri campi. E’ finito nel Novecento solo sulla carta. Ecco perché credo molto nell’importanza della geografia nella scuola, perché più di ogni altra materia può dare spazio a contenuti e riflessioni su questi temi, che non hanno più bisogno di aggettivi.