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24 agosto, Ostuni. Sì, Ostuni, Puglia, Italia. Ce l’abbiamo fatta, è andata, in qualche modo.
Gli ultimi giorni, che ci hanno portato da Kotor a Dubrovnik – dal Montenegro alla Croazia -, hanno lasciato negl’occhi belle immagini di una terra per molti tratti ancora selvatica, intatta. Montagne che si tuffano nel mare, canyon, altopiani desolati, scogliere, acque cristalline. Brutture, anche: urbanizzazione crescente, banalizzazione turistica dei centri storici, popolazione che vuole turismo, affari, che costruisce, amplia, si omologa, ma resta chiusa e poco ospitale, almeno nella gran parte degli episodi e delle persone che abbiamo incontrato sul nostro cammino.
Programmare e affrontare il ritorno, be’, è stato meno semplice del previsto. Innanzitutto, abbiamo dovuto trovare un buon modo per arrivare a Dubrovnik. Dico, Dubrovnik, non molto, una quarantina di chilometri. Ecco, ci è parso di capire che la guerra tra montenegrini e croati continua, solo si è spostata su un altro campo di battaglia, quello turistico.
Arrivati a Herceg Novi, ultima cittadina di qualche dimensione prima del confine tra Montenegro e Croazia, speravamo in qualche mezzo di trasporto in più: solo due pullman, il primo alle 6 del mattino – praticamente inservibile da chiunque si sposti da altri luoghi coi mezzi pubblici -, il secondo a un’orario scomodino, tipo le tre del pomeriggio. (Ora – questa parte tra parentesi è una specifica, se non v’interessa saltate direttamente al prossimo capoverso -: Herceg si trova a quaranta chilometri da Dubrovnik, in mezzo non c’è altro, e a quaranta chilometri da Bar, altra cittadina montenegrina più o meno simile a Dubrovnik (e certamente meno rilevante dal punto di vista turistico). Ecco, per Bar – dal Montenegro al Montenegro, per intenderci -, ci sono più di una ventina di autobus giornalieri; per Dubrovnik – dal Montenegro alla Croazia – gli autobus sono i due già citati).
Un poco crucciati, alla fine, decidiamo di attendere la corsa pomeridiana. Dopo qualche ora passata ad aspettare, arriva l’autobus. Scansati i sempre più invadenti tassisti, superate tutte le gentili, ma invadenti, matrone che propongono alloggi in centro, riusciamo a guadagnare un posto sul, per giunta costoso, autobus. E’ assiepato come non mai. Il bus parte, l’autista slavo è sospetto, quando non alticcio, e nasconde sul pullman un filone di cipolle, succo di frutta e qualche stecca di sigarette. Non capiamo: ci sforziamo, ma al momento, lì per lì, non ci arriviamo. Giunti in poco tempo alla dogana, troviamo una gran coda ferma ad aspettare, ma il nostro – l’autista, intendo – prende una corsia preferenziale e arriva dritto alla frontiera da un accesso laterale. Spegne, scende e porta con sè il bottino di cipolle e spicci, mentre a noi, con toni militareschi, ritirano passaporti. Iniziamo a capire, ormai dovremmo esserci abituati: qui, per non aver problemi, si comprano i doganieri con cipolle e sigarette. Tra me e me penso: se succede ad ogni passaggio, ogni mese l’autista deve spendere un quarto del suo stipendio in verdure e annessi. I passaporti intanto vengono portati in un cabinotto poco distante dall’autobus. Vengono portati senza nessun motivo, peraltro: il doganiere numero due, quello a cui vengono consegnati per l’effettivo controllo, li tiene in mano, li fa correre una volta tra le dita e li ridà al doganiere uno, che li rende al pullman, sempre con modi poco eleganti.
Operazione inutile, tangente in prodotti locali e qualche spicciolo, antipatia e si riparte.
Arriviamo a Dubrovnik che ormai è sera. Qui vorremmo trascorrere gli ultimi giorni del nostro viaggio, sempre qui vorremmo toccare quell’Adriatico che avrebbe dovuto rappresentare un traguardo, l’annuncio del ritorno a casa. Il problema è che è sabato, il penultimo del mese di agosto, e a Dubrovnik si sente quasi solo parlare italiano. Risultato: non ci sono posti sui traghetti nei giorni a venire, niente di niente, neanche un passaggio ponte; da Durbovnik come dagli altri porti più a nord e più a sud. O almeno internet, dice così, negandoci il ritorno a casa. Lì per lì, siamo costretti a credergli.
Dopo qualche pensiero negativo, non ci perdiamo d’animo, siam viaggiatori un poco più allenati, ormai, e crediamo, dobbiamo credere, ci sia sempre un vento buono ad accompagnarci: decidiamo, quindi, di dirigerci direttamente alla biglietteria del porto. Lì, scorgiamo un piccolo capannello di persone in stato di evidente agitazione: vengono venduti gli ultimi biglietti, quelli last-minute: ritiri, rinunce, incidenti, e riassegnazioni sul posto, poche ore prima dell’imbarco. La confusione ci coglie e si amplifica nella stanchezza, che ormai come patina offusca il giorno. Che fare? Rimanere fino a non si sa bene quando? imbarcarsi al volo, in anticipo rispetto alle previsioni? Alla fine, dopo un bel po’ di contorsioni cerebrali, spinti dalla tensione intorno – frenesia da ultimi posti, venghino signori venghino -, decidiamo per la seconda, decidiamo di acquistare un biglietto per quella sera stessa.
Biglietto fatto, abbiamo tre ore per andare a visitare il centro di Dubrovnik. Ormai c’è allenamento e anche un pizzico di follia, ci destreggiamo rapidi con lingua e soldi croati (e quindi, nuovamente, di nuovo, nuovi) ci compriamo due corse di autobus per il centro e con i nostri zainoni improvvisiamo una serata tra le belle mura della città, colorate, ora, dal tramonto. La città, sì, è decisamente suggestiva, come lo è l’intorno, il paesaggio, il contesto: costa frastagliata e selvaggia. Meno suggestiva, persino mortificante, la cornice: il centro è praticamente trasformato in una sorta di ipermercato all’aperto. Un centro finto: senza vita, senza negozi (veri), senza abitanti: solo boutique e ristoranti internazionali. Ci compriamo un paio di libri – in previsione della notte insonne -, mangiamo qualcosa seduti sui gradini di un monumento, lasciamo il centro senza troppo dispiacere. Troppa, troppa gente, per noi, per le nostre abitudini, per tutta la nostra stanchezza.
Arrivati all’imbarco, iniziamo a prospettare una traversata Dubrovnik – Bari allucinante: ritorniamo con la mente alla tensione e alla frenesia raccolte davanti al bigliettaio, vediamo miriadi di italiani assiepati e decisamente chiassosi – i più chiassosi, a dirla tutta – con i loro trolley davanti all’imbarco. Pensiamo, ragionevolmente – date le scene viste e la data poco propizia -, che con noi tornerà in Italia tutta la Puglia, o qualcosa di simile.
In verità, in verità questo non succede, o solo succede, ma, ai nostri occhi pellegrini e al nostro cuore un poco più rumeno, tutto alla fine appare normale, quasi tranquillo. C’è l’allenamento alla scomodità, al pasto frugale, a trovarsi il proprio angolo anche nella folla e nel rumore, nello sporco, nel leggero disagio. Ci sono negli occhi le immagini dei villaggi, le condizioni di vita, gli odori, le allucinazioni delle campagne rumene e ormai così lontane. Non so, tanti fattori ci hanno fornito altra visione, l’umiltà di accontentarci e di vivere bene la traversata, con poco (in mezzo a sciami di turisti impegnati al lamento). Atteggiamenti che in cuor nostro, dopo ogni viaggio, speriamo di conservare, ma che ogni volta si disimparano in fretta, si dimenticano, vanno ripresi, allenati, in qualche modo spolverati.
Saliti sul traghetto, stesi con abilità i nostri materassini, arrangiato il riparo, come da molti giorni a questa parte, abbiamo un’ultima cosa da fare: inviare un sms. Un sms verso la Puglia per chiedere ospitalità a Jacopo (se volessimo usare un’immagine dell’adolescenza: il migliore amico, il migliore amico dello scrivente, almeno) e così spezzare il ritorno. La risposta non tarda ad arrivare: non saremo costretti a fare di filato da Dubrovnik alla Brianza. Tiriamo un sospiro di sollievo, o qualcosa che gli assomiglia.
Ed eccoci qui, il sole basso taglia la casa e la campagna, gli ulivi, I muretti a secco. Nell’aria le note di Mentre Dormi (Gazzè Max, anno 2010), finalmente suona musica scelta. E poi silenzio, profumo di terra – di terra dove finisce la terra e inizia il mare – posto ideale per guardare indietro, al viaggio, e riposare il ritorno, renderlo più morbido.
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