Bevo un caffè al bar della stazione, aspetto un treno che mi porti dalla scuola all’università. Oltre i vetri, piove acqua da un cielo di nessun colore. Mi sistemo le maniche coprendo i polsi, avverto dal mattino un freddo umido che non mi vuole lasciare. Il caffè, in un bar triste di stazione, almeno lui, con quel suo gusto che parla da lontano, mi riporta un po’ di Grecia. Era solo ieri: Santorini, il vento di scirocco, la lava e il mare. Il sapore del caffè, seduti a un tavolino in un angolo dimenticato del mondo. E’ l’oriente. Il mio Est. Una condizione dell’animo, un modo di vivere e di guardare.
Da quando sono atterrato ieri, a Venezia, il mio telefono, rimasto in fondo a una sacca per giorni, ha ripreso a frullare. Sono arrivato a casa, ho messo a lavare i vestiti, riaperto le imposte, dato un’occhiata a Montevecchia brillare sempre là al suo posto, guardato le carte per il giorno successivo, e con un vago fastidio risposto a mail e messaggi. Una quantità di comunicazioni che per pochi giorni di assenza m’è parsa oltre ogni buon senso. Sono andato a letto zitto, dentro e fuori.
Questa mattina la sveglia è suonata alle 6.30, come ogni volta in cui devo essere a scuola per la prima ora di lezione. Mi sono alzato in una penombra tetra, mi sono messo in strada, auto tra le auto, ho fatto lezione e tra una lezione e l’altra ho programmato appuntamenti, risposto a nuovi messaggi, mail, giustificato assenze, rispettato scadenze, compilato modulistiche per nuovi corsi di abilitazione che sto frequentando in università. Tutto senza guardarmi attorno, come fossi in un tunnel.
Mi fermo solo ora. Qui, in un momento di attesa, davanti a un caffè ferroviario. Che vita facciamo? Ha senso? E’ umano avere così tante interazioni? E, usando un termine di orgogliosa purezza, è giusto? Persone di buona intelligenza non dovrebbero rinunciare a porsi domande in merito, anche se le risposte potrebbero non essere comode.
Io sono arrivato ad apprezzare i momenti di attesa: le code, i treni da prendere. Quelli che chiamiamo comunemente tempi morti, per me sono piccoli spazi di luce, buoni a respirare. Forse l’unica pausa che concediamo al pensiero in questo stile di vita sbagliato. Non tutti, per il vero. Lo vedo sui treni e qui, nelle stazioni: in tanti leggono, ascoltano, raccontano, ma altrettanti si incazzano, sbuffano, nervosi fissano ossessivamente i tabelloni elettronici in attesa degli orari di partenza. Io ho imparato, per necessità personale, a godere dello spazio concesso. E quando devo attendere mi siedo, guardo cosa fanno gli altri, rifletto, m’incammino e perlustro la zona, leggo qualcosa, se mi capita scrivo. In questi spazi mi concedo momenti senza distrazioni o sensi di colpa. Lo trovo assurdo, ma, onestamente, funziona così. Di questi tempi smettiamo di leggere libri perché avvertiamo la (sinistra) sensazione che leggere tolga tempo alle cose da fare. E’ il tempo dell’Utile che sempre bussa alla nostra porta, ci butta via l’anima. Il tempo della lettura, del viaggio senza meta, del pensiero astratto, il momento in cui si vive, si respira ed impara, tutto questo tempo va giustificato come tempo sottratto al dovere.
Dovere: non è una brutta parola, quello che siamo lo dobbiamo a tante persone, ad esempio; ma che dovere abbiamo nei confronti di noi stessi? Una domanda che, davanti alle precedenti considerazioni, mi faccio spesso.