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Al porto

In un caldo pomeriggio di luglio si conclude l’esame di maturità delle mie quinte, e con l’esame un altro anno scolastico.
Sempre difficile dire se questo sia un traguardo o un punto di partenza. E’ un porto. Un posto dove si trova il piacere dell’arrivo, terraferma dopo tanto mare; e onde, e sirene, e squali, giustifiche, giustificazioni, campanelle, giornate buone e meno buone.

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Della 5B di quest’anno mi piacerebbe portar via con me la carica positiva di Manuel, la voglia di scoperta di Riccardo, il sorriso di Jenny, la verve critica di Alice, la silenziosa sensibilità di Gaia, l’altrettanto silenziosa discrezione di Maria, l’affettuosità di Francesca, la determinazione di Lorenzo, la voglia di rinnovamento intellettuale di Marco, la capacità di stare in classe e pensare all’Hokkaido di Gabriele, la schiettezza senza timore di Glenda, i colori di Giulia – e che sappia non perderli – l’ironia furtiva di Sara.

Della 5D, che dire? Mi avete regalato quella che considero la più bella impresa che un insegnante/geografo possa realizzare: il nostro itinerario greco, passi e sguardi che non dimenticherò.

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Oggi però i pensieri vanno altrove, ci si guarda l’ombelico: sarò stato in grado di svolgere decentemente il mio lavoro? qualcosa rimarrà? qualcosa è passato tra le maglie della rete? Domande da fine corsa.
Oggi ci si ferma un po’ per guardarsi alle spalle e apprezzare la rotta tracciata, la strada fatta. Si dà un’occhiata alle carte per farsi un’idea, per capire come proseguire.

Un porto, questa maturità; uno dei molti. Una tappa del viaggio che, come ricorda il grande greco Kostantinos Kavafis, nella sua “Itaca”, è meglio che duri a lungo e avanzi senza fretta.
Godetevi tutti i passi ragazzuoli, ogni momento.

 

Il quaderno di Santorini – Stazione di Carnate, ore 14:30

Bevo un caffè al bar della stazione, aspetto un treno che mi porti dalla scuola all’università. Oltre i vetri, piove acqua da un cielo di nessun colore. Mi sistemo le maniche coprendo i polsi, avverto dal mattino un freddo umido che non mi vuole lasciare. Il caffè, in un bar triste di stazione, almeno lui, con quel suo gusto che parla da lontano, mi riporta un po’ di Grecia. Era solo ieri: Santorini, il vento di scirocco, la lava e il mare. Il sapore del caffè, seduti a un tavolino in un angolo dimenticato del mondo. E’ l’oriente. Il mio Est. Una condizione dell’animo, un modo di vivere e di guardare.
Da quando sono atterrato ieri, a Venezia, il mio telefono, rimasto in fondo a una sacca per giorni, ha ripreso a frullare. Sono arrivato a casa, ho messo a lavare i vestiti, riaperto le imposte, dato un’occhiata a Montevecchia brillare sempre là al suo posto, guardato le carte per il giorno successivo, e con un vago fastidio risposto a mail e messaggi. Una quantità di comunicazioni che per pochi giorni di assenza m’è parsa oltre ogni buon senso. Sono andato a letto zitto, dentro e fuori.
Questa mattina la sveglia è suonata alle 6.30, come ogni volta in cui devo essere a scuola per la prima ora di lezione. Mi sono alzato in una penombra tetra, mi sono messo in strada, auto tra le auto, ho fatto lezione e tra una lezione e l’altra ho programmato appuntamenti, risposto a nuovi messaggi, mail, giustificato assenze, rispettato scadenze, compilato modulistiche per nuovi corsi di abilitazione che sto frequentando in università. Tutto senza guardarmi attorno, come fossi in un tunnel.


Mi fermo solo ora. Qui, in un momento di attesa, davanti a un caffè ferroviario. Che vita facciamo? Ha senso? E’ umano avere così tante interazioni? E, usando un termine di orgogliosa purezza, è giusto? Persone di buona intelligenza non dovrebbero rinunciare a porsi domande in merito, anche se le risposte potrebbero non essere comode.
Io sono arrivato ad apprezzare i momenti di attesa: le code, i treni da prendere. Quelli che chiamiamo comunemente tempi morti, per me sono piccoli spazi di luce, buoni a respirare. Forse l’unica pausa che concediamo al pensiero in questo stile di vita sbagliato. Non tutti, per il vero. Lo vedo sui treni e qui, nelle stazioni: in tanti leggono, ascoltano, raccontano, ma altrettanti si incazzano, sbuffano, nervosi fissano ossessivamente i tabelloni elettronici in attesa degli orari di partenza. Io ho imparato, per necessità personale, a godere dello spazio concesso. E quando devo attendere mi siedo, guardo cosa fanno gli altri, rifletto, m’incammino e perlustro la zona, leggo qualcosa, se mi capita scrivo. In questi spazi mi concedo momenti senza distrazioni o sensi di colpa. Lo trovo assurdo, ma, onestamente, funziona così. Di questi tempi smettiamo di leggere libri perché avvertiamo la (sinistra) sensazione che leggere tolga tempo alle cose da fare. E’ il tempo dell’Utile che sempre bussa alla nostra porta, ci butta via l’anima. Il tempo della lettura, del viaggio senza meta, del pensiero astratto, il momento in cui si vive, si respira ed impara, tutto questo tempo va giustificato come tempo sottratto al dovere.
Dovere: non è una brutta parola, quello che siamo lo dobbiamo a tante persone, ad esempio; ma che dovere abbiamo nei confronti di noi stessi? Una domanda che, davanti alle precedenti considerazioni, mi faccio spesso.

Gli studenti e il dialogo sulla città e sui luoghi

Oggi si avvicina una mia studentessa tornata da Parigi per mostrarmi qualche foto, le chiedo come è andata.

Lei mi dice così: “Ero partita con un’aspettativa, le solite cose che dicono tutti: una città magica, romantica, un’atmosfera unica, tour Eiffel imperdibile. Non l’ho vista così, un’atmosfera come tante altre, la tour Eiffel non ha avuto nessun impatto per me se non dall’alto ed esclusivamente per il panorama. La Senna faceva venire il vomito per il colore che aveva. Funzionavano bene i mezzi, molto ricchi i musei, senza dubbio, le cattedrali, la reggia. Ma alla fine non mi ha lasciato nulla”.

Io le ho detto così: “La città di Parigi non è certo il mio ideale di città, non amo le grandi geometrie ottocentesche, né la città piena dei segni del potere, ecclesiastico, aristocratico o borghese che sia. Mi piace la città meno centro del mondo e più centro della vita delle persone. Però credo sia snob, quando non cretino, non provare meraviglia per quanto spazio in Parigi sia pensato e creato dall’uomo secondo un disegno di eleganza passata”.

Abbiamo concordato, guardato tre foto ancora e la cosa è finita lì.

C. Jacrot, un bravo fotografo di spazi urbani
C. Jacrot, un bravo fotografo di spazi urbani

Invece qui, qui vorrei dire qualcosa che ho imparato sui luoghi e che le poche battute di questa mattina mi hanno riportato  alla mente. Tendiamo a non separare le impressioni quando parliamo delle nostre esperienze di vita e di viaggio. E invece dovremmo, dovremmo quantomeno tenere presente che esistono due piani che si sovrappongono nella nostra esperienza dello spazio, una geografia materiale e una sentimentale.

I luoghi non sono mai solo lo spazio fisico che calpestiamo, che osserviamo. Ma sono il tempo, il senso che diamo al tempo nei giorni in cui calchiamo un certo terreno, il nostro stato d’animo del momento e il momento storico che attraversiamo, le persone che ci accompagnano o gli incontri che facciamo, una certa luce che taglia il cielo, una stagione che si chiude o si apre.
Io ho nel cuore luoghi nascosti e modesti e ho lasciato senza alcuna emozione grandi città. Non era colpa loro, non ho valutato col mio ricordo, o con le mie emozioni del momento la loro bellezza, ma solo quanto quelle città, quei luoghi, mi dicevano di me.
Il viaggio è sempre un tornare. La città nuova incontrata sul cammino ci aiuta a scoprire noi stessi, a fare ritorno. Se non ci parla non è che non è bella, semplicemente non è nostra.

La questione del perché farlo

la fine dell educazione

«C’è in realtà un luogo nel quale l’educazione è tutt’altro che finita, tutt’altro che fallita, ed è il mondo aziendale. Accoccolata comodamente nello spazio che l’ultima frontiera del capitalismo le concede, l’educazione continua a vivere: si è trasformata in “formazione” per non dare nell’occhio e per non scandalizzare con gli ultimi residui di trascendenza che il termine “educazione” si porta dietro, ma sopravvive, e in modo assai florido, laddove rinuncia per principio a discutere l’esistente, a porsi domande di senso a proposito dell’assetto socioeconomico nel quale ci troviamo a vivere. Purché spacci per destino immutabile, per sfondo indiscutibile dei suoi discorsi l’attuale situazione sociale, l’attuale capitalismo globalizzato; purché riduca il suo discorso a tecnica del “che fare?” che non pone mai la questione del “perché farlo” o, perlomeno, del “perché farlo così”; purché, insomma, si vanifichi in quanto discorso filosofico e comunque trascendente rispetto all’esistente, all’educazione non è negato un posto al banchetto del capitale trionfante.»

L’adolescenza è un’invenzione – 2

Monsieur Lazhar è un film che mi è molto piaciuto. Un film ambientato a scuola, che parla di diverse cose di cui parliamo ogni giorno qui, in questo pezzetto di terra popolato di zaini e felpe col cappuccio. Ho ritrovato lì  molti aspetti del mio lavoro, anche i più segreti riproposti con semplicità. In qualche passaggio mi sono riconosciuto, ritrovato, e in questo ritrovarmi ho trovato conforto. Mi son sentito accompagnato nell’interpretare questo spazio  in tempi non esattamente facili.


In quella storia c’è qualcosa di quanto provavo a scrivere un paio di giorni fà:  l’insegnante tratta i ragazzi alla pari, come fossero adulti. E’ una cosa che credo mi appartenga. Non c’è simulazione, lo fa sinceramente il protagonista nella storia, lo faccio sinceramente io tra i muri della scuola. Questo perché credo che ogni età ha i suoi problemi, le sue fonti di ansia, le sue fonti di felicità, i suoi spazi di ombra e di sole; ogni età. E i problemi di quando hai 18 anni hanno uguale dignità di quelli che hai quando ne hai 40, di anni, perché (qualche volta) hanno nature diverse, ma li si affronta (sempre) con età e strumenti diversi. Spesso nel mondo “adulto” si tende a far due pesi e due misure, a liquidare i problemi dei sedicenni come stupidaggini, solo perché son cose che un quarantenne ha lasciato agli anni, ha superato da tempo e solo sfocatamente ricorda. Non dovrebbe succedere così spesso, perché quando accade alla lunga si crea una distanza, un distacco non riparabile, si divaricano le masse e in mezzo si infila la retorica delle generazioni, che non permette la comprensione di niente. Vale tra diverse età, vale tra i sessi, vale tra culture. Se si perde il contatto tutto il resto si fà difficile: nella geografia della vita serve sempre un qualche terreno di mezzo in cui incontrarsi.