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Il pericolo percepito e la paura reale

In questi anni di certo la paura per la criminalità si è diffusa molto, spesso associandosi nel discorso pubblico al fenomeno migratorio con un’equazione piuttosto semplice: più immigrati, più reati sul territorio. I dati però, spiega Cornelli, dicono altro:  «L’aumento dei reati in Italia è avvenuto in un periodo in cui i flussi migratori erano minimi e quasi tutti legati a  comunità consolidate: i filippini che svolgevano mansioni domestiche durante gli anni ottanta, per fare un esempio. Negli anni Novanta cresce il numero degli immigrati, ma in un panorama in cui il numero di reati diminuisce o resta stabile. Ad esempio, in quegli anni assistiamo a una sensibile diminuzione degli omicidi».

Elia Aureli di CambiaMenti con Cornelli
Elia Aureli di CambiaMenti con Cornelli

Un nuovo articolo scritto per Vorrei propone l’analisi di Roberto Cornelli, criminologo della Bicocca, che indaga il rapporto tra percezione collettiva e politiche di ordine pubblico.

 

Il Cammino di San Benedetto

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Arriviamo a Rieti in un torrido pomeriggio di luglio, il treno diesel monovagone partito da Terni si è infilato in una valle stretta e selvosa e dopo meno di un’ora si è arrestato a destinazione. Fuori dalla stazione il termometro segna 38 gradi centigradi e un cartello ci avvisa che ci troviamo nell’ombelico d’Italia, insolito concetto del baricentro di uno stivale. Zaino in spalla, riempiamo le borracce a una fontana e partiamo verso la prima meta del nostro itinerario d’Appennino: “la Foresta”. Nella foresta di Rieti San Francesco dimorò per qualche tempo ed ebbe ispirazione per il suo “Cantico delle creature”.

Oggi “La Foresta” è un’abbazia con spazi di accoglienza gestiti dai ragazzi di “Mondo X”, per raggiungerla bisogna uscire dalla città e seguire le curve per circa sei chilometri; i primi passi in salita ci portano in una bella campagna punteggiata d’ulivi e poi su per colline; si presagisce quale sarà l’atmosfera lungo il cammino dei prossimi giorni. (continua a leggere su Vorrei.org)

Terre dell’abbandono

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Dopo giorni passati sugli Appennini, proprio ieri, mentre veniva approvato il ddl Madia, ho concluso un articolo, che mi è stato commissionato, con queste parole:

«Ogni sera ci fermiamo in piccoli borghi vibranti di un’atmosfera dolce e amara. In ogni paese dolci e amare le note. Come ci hanno testimoniato le parole delle persone incontrate, sono queste oggi più di ieri zone di margine. Rossi-Doria era solito definire l’Appennino interno “Terra dell’osso”, terra povera, dimenticata, in contrapposizione alle zone litorali dove il mare e poi il turismo avevano concentrato “la polpa”.
Ora il fascino del tempo qui si mischia anche a tanti piccoli e meno nobili fenomeni di abbandono. Si tratta di un abbandono fisico, di gente che se ne è andata e continua ad andarsene, lasciando senza energie nuove i paesi, ma spesso anche di un abbandono civile: il degrado, l’incuria, la dimenticanza del nostro inestimabile patrimonio pubblico e della sua ideale funzione. In queste terre difficili, vicine a Roma, eppure così lontane dal turismo e dai suoi flussi, si può trovare quel che rimane delle comunità nel confuso tempo della globalizzazione. In queste comunità, che a chi viene da fuori spesso appaiono come reliquie, alcune persone, come quelle che hanno colto il valore del progetto che sta dietro questi Cammini, cercano di riaffermare il valore di un altro tempo e di un altro modo di vivere, di cui l’Appennino potrebbe essere un modello. Sono persone che si muovono con determinazione, ma anche con delicatezza, avanzando alla ricerca del difficile equilibrio che di questi tempi una comunità può vivere tra apertura e chiusura rispetto al mondo che “viene da fuori”».

Diversi incontri con persone in gamba in questi giorni lungo il Cammino di San Benedetto,  motivate, che combattono – se mi passate il termine – in aree non semplici e che necessiterebbero appoggio dalle Istituzioni per proseguire con più forza il loro lavoro. Gli enti locali pare siano impegnati in altro e preferiscano sovvenzionare iniziative fatte in casa piuttosto che progetti, come quello del Cammino, che vengono percepiti come “estranei” al territorio. Il  governo centrale con questa mossa conferma un’altra linea, un altro approccio culturale al paesaggio, che spinge l’argine ancora più in là e fa male al Paese per i motivi che sinteticamente spiega Montanari oggi sulle pagine di AltraEconomia.

Senza tutela non ci può essere valorizzazione ribadisce oggi Settis su Repubblica. E in certe aree d’Italia la tutela diventa  anche il contrasto all’abbandono fisico (l’emigrazione) e civile (la perdita di senso) dei luoghi.

Stato di guerra

Le modifiche alla Costituzione discusse (in condizioni che, per essere elegante, definirò inadeguate) negli scorsi giorni contengono tante sorprese. Sorprese, sì, perché la Carta costituzionale è stata modificata in assenza di un dibattito aperto che potesse renderci edotti dei contenuti messi in discussione. Se vanno in porto le modifiche proposte da Renzi, tra le novità avremo anche questa: un solo par­tito poli­tico (che potrà avere la mag­gio­ranza asso­luta alla Camera anche con una mag­gio­ranza rela­tiva dei voti dell’elettorato) avrà il potere di dichia­rare lo «stato di guerra».

Una modifica che snatura le avvedute (e come poteva essere altrimenti dopo trent’anni di guerra?) scelte del 1947, se teniamo in debito conto che  la nostra Costituzione prevede la guerra solo come strumento eccezionale da adoperare quale “ultima spiaggia” per difendere il suolo nazionale qualora  sia aggredito. L’eccezionale gravità in cui si va a dichiarare lo «stato di guerra» in democrazia, va da sé, suggerirebbe allora che la decisione sia la più con­di­visa pos­si­bile.

Stiamo parlando di teoria, ahinoi. In pratica, niente di nuovo. Dall’unificazione a oggi, in un secolo e mezzo, vado a memoria, conto 12 o 13 conflitti internazionali a cui l’Italia ha preso parte. In ognuno di questi il nostro paese era aggressore; mai aggredito. Insomma, la storia degli oltraggi all’articolo 11 (“L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali…”) è molto lunga e nonostante questo pare non insegni granché. Alle porte bussano già nuovi e insulsi istinti bellici. Ora sarà persino più semplice soddisfarli.